IL TRIBUNALE DI TERAMO In composizione monocratica, nella persona del giudice Franco Tetto: nel procedimento penale n. 2106/17 r.g. a carico di S.M., difeso dall'avv. Antonio Di Gaspare del foro di Teramo; all'esito dell'udienza dibattimentale del 3 luglio 2019 ha pronunciato la seguente ordinanza: 1. A seguito di udienza preliminare, S.M. e' stato tratto a giudizio per rispondere del delitto di atti persecutori (art. 612-bis, comma 2, del codice penale) consumato in danno della cittadina cinese L.L., con la quale aveva intrattenuto una relazione sentimentale. Al S. si contesta in punto di fatto di aver tenuto - nell'arco temporale dal 19 febbraio 2017 al 1° giugno 2017, successivamente all'interruzione della relazione con la L. e ad un'aggressione fisica posta in essere il 19 febbraio 2017 ai danni della stessa - reiterati comportamenti intimidatori e molesti, consistiti: nell'inviare all'ex compagna, a partire dal 21 febbraio 2017 «insistenti e pertanto molesti sms, talvolta dal contenuto ingiurioso ed intimidatorio»; nel contattare telefonicamente il 26 maggio 2017 il centro benessere ove lei lavorava, fingendosi un carabiniere e chiedendo ad altra dipendente conferma del fatto che L.L., asseritamente ricercata dalle forze dell'ordine, si trovava li'; il 29 maggio 2017 si presentava presso il predetto centro esortando L.L. a ritornare insieme a lui e minacciandola che, in caso contrario, l'avrebbe denunciata e avrebbe fatto chiudere l'attivita' ove stava lavorando; il 31 maggio 2017 si presentava nuovamente presso il posto di lavoro di L.L. reiterando le medesime richieste e minacce; il 1° giugno 2017 si presentava ancora una volta presso il luogo anzidetto, sia la mattina, quando non vi trovava L.L., sia nel tardo pomeriggio, quando la stessa, pur essendo presente, non accettava di incontrarlo (in tali termini testuali il capo di imputazione), cosi' da ingenerare nella persona offesa un perdurante e grave stato di ansia e di paura, un fondato timore per la propria incolumita', costringendola inoltre ad alterare le proprie abitudini di vita. All'udienza del 7 febbraio 2018, dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento, sono stati ammessi i mezzi di prova indicati dalle parti. L'istruzione dibattimentale e' iniziata alla successiva udienza del 9 maggio 2018 con l'acquisizione di documentazione e l'esame di alcuni testi; e' proseguita alle udienze del 20 giugno 2018, del 27 settembre 2018 e del 31 ottobre 2018 con l'esame della persona offesa (costituita parte civile e assistita da un interprete di lingua cinese) e di altri testimoni. All'udienza del 20 febbraio 2019, prima della discussione finale e della chiusura del dibattimento, questo giudice ha instaurato il contraddittorio delle parti in ordine ad un'eventuale qualificazione della condotta addebitata all'imputato in termini giuridicamente diversi e meno gravi (art. 660 del codice penale) rispetto a quelli (art. 612-bis del codice penale) contestati nel decreto di rinvio a giudizio. In relazione a tale iniziativa ufficiosa, ispirata ad una interpretazione convenzionalmente orientata dell'art. 521, comma 1 del codice di procedura penale, il pubblico ministero e la difesa di parte civile nulla hanno osservato, mentre l'imputato ha chiesto un termine a difesa anche al fine di valutare un'eventuale richiesta di definizione del procedimento mediante oblazione, ai sensi dell'art. 162-bis del codice penale, sul presupposto, appunto, della condivisa riconducibilita' giuridica della condotta alla fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 660 del codice penale, punita con pena alternativa. In accoglimento della richiesta difensiva, il dibattimento e' stato differito all'udienza del 20 marzo 2019, poi rinviata per esigenze dell'ufficio. All'udienza del 12 giugno 2019 l'imputato ha presentato formale istanza di oblazione, rispetto alla quale il pubblico ministero nulla ha eccepito, mentre il difensore della parte civile ne ha chiesto il rigetto. Ai fini di una ponderata valutazione dell'ammissibilita' dell'istanza, formulata dall'imputato, per la prima volta, oltre il termine perentorio previsto dall'art. 162-bis del codice penale («Nelle contravvenzioni per le quali la legge stabilisce la pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda, il contravventore puo' essere ammesso a pagare, prima dell'apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di condanna, una somma corrispondente alla meta' del massimo dell'ammenda stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa, oltre le spese del procedimento ...») (1) , e' stata fissata l'udienza del 24 giugno 2019, differita, per esigenze dell'ufficio, all'odierna udienza. 2. Questo giudice ritiene che la decisione (preliminare rispetto ad ogni valutazione relativa alla ricorrenza, nel caso di specie, dei presupposti «sostanziali» richiesti dall'art. 162-bis del codice penale) della richiesta personalmente avanzata dall'imputato intercetti la pregiudiziale risoluzione della questione - rilevante e non manifestamente infondata - di legittimita' costituzionale dell'art. 141, comma 4-bis, disp. att. del codice di procedura penale, aggiunto dall'art. 53, comma 1, lettera c) della legge 16 dicembre 1999, n. 479 («Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all'ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennita' spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense»), in relazione all'art. 162-bis, comma 1 del codice penale, nei termini e per le ragioni che di seguito si vanno ad esplicitare. 2.1. In punto di rilevanza della questione, ad integrazione delle ragioni in fatto e giuridiche sottese all'ordinanza adottata all'udienza del 20 febbraio 2019, va ribadito che, nella fattispecie per cui e' processo, la prospettiva concreta di una eventuale emendatio iuris dell'ipotesi accusatoria trova ragionevole aggancio di plausibilita' nel complesso degli elementi probatori acquisiti all'esito dell'espletata istruzione dibattimentale. Per quel che qui rileva, e' sufficiente osservare che le dichiarazioni rese dalla persona offesa L.L., pur risultate nel complesso intrinsecamente attendibili (2) , hanno lasciato irrisolto un ragionevole dubbio sulla riconducibilita' ai reiterati comportamenti oggettivamente molesti posti in essere dal S. di almeno uno degli eventi previsti, in via alternativa, per l'integrazione della fattispecie delittuosa contestata dall'accusa. In tale prospettiva, risulta pertinente il richiamo delle coordinate interpretative tracciate dalla Suprema corte e dal giudice delle leggi (cfr. Corte costituzionale 11 luglio 2014, n. 172) finalizzate ad offrire, in una prospettiva costituzionalmente orientata (art. 25 della Costituzione) ai giudici di merito un criterio di selezione delle condotte connotate in concreto da potenzialita' lesive del bene giuridico tutelato dall'art. 612-bis del codice penale. In particolare, la Corte costituzionale ha evidenziato che il legislatore con l'art. 7 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 («Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori»), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1 della legge 23 aprile 2009, n. 38 - volendo colmare un vuoto di tutela verso i comportamenti persecutori, assillanti e invasivi della vita altrui - ha introdotto nel codice penale l'art. 612-bis, il quale prevede un'autonoma e piu' grave fattispecie di reato, in linea con quanto previsto da numerosi ordinamenti stranieri. Con lo speciale reato di cui all'art. 612-bis del codice penale, il legislatore ha ulteriormente connotato le condotte di minaccia e molestia, richiedendo che le stesse siano realizzate in modo reiterato e idoneo a cagionare almeno uno degli eventi indicati nel testo normativo (stato di ansia o di paura, timore per l'incolumita' e cambiamento delle abitudini di vita). Tale ulteriore connotazione e' volta ad individuare specifici fenomeni di molestia assillante che si caratterizzano per un atteggiamento predatorio nei confronti della vittima, bene espresso dal termine inglese stalking, con cui viene solitamente descritto questo comportamento criminale. Le peculiarita', che contraddistinguono la minaccia e la molestia in questi casi, espongono la vittima a conseguenze nella vita emotiva (stato di ansia e di paura ovvero timore per l'incolumita') e pratica (cambiamento delle abitudini di vita), che rappresentano eventi individuati dal legislatore proprio al fine di meglio circoscrivere la nuova area di illecito, caratterizzata da un aggravato disvalore rispetto alle generiche minacce e molestie e che, pertanto, giustificano una piu' severa reazione penale. Inoltre, occorre tenere conto del fatto che si e' ormai consolidato un «diritto vivente» che qualifica il delitto di cui all'art. 612-bis del codice penale, come reato abituale di evento, per la cui sussistenza occorre una condotta reiterata, idonea a causare nella vittima una delle conseguenze descritte e, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, richiede il dolo generico, il quale e' integrato dalla volonta' di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneita' delle medesime a produrre almeno uno degli eventi previsti dalla norma incriminatrice (cfr. Cassazione n. 20993/12 e n. 7544/12). Il concetto di «reiterazione», utilizzato nella norma incriminatrice, chiarisce in modo preciso che sono necessarie almeno due condotte di minacce o molestia. Cio', tuttavia, non e' sufficiente, in quanto le medesime devono anche essere idonee a cagionare uno dei tre eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice. Una tale valutazione di idoneita' non puo' che essere condotta in concreto dal giudice esaminando il singolo caso sottoposto al suo giudizio e tenendo conto che, come ha ripetutamente sottolineato la giurisprudenza di legittimita', non e' sufficiente il semplice verificarsi di uno degli eventi previsti dalla norma penale, ne' basta l'astratta idoneita' della condotta a cagionarlo, occorrendo invece dimostrare il nesso causale tra la condotta posta in essere dall'agente e i turbamenti derivati alla vita privata della vittima (cfr. fra le tante: Cassazione n. 46331/13 e n. 6417/10). «Quanto al "perdurante e grave stato di ansia e di paura" e al "fondato timore per l'incolumita'", trattandosi di eventi che riguardano la sfera emotiva e psicologica, essi debbono essere accertati attraverso un'accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell'agente, che denotino una apprezzabile destabilizzazione della serenita' e dell'equilibrio psicologico della vittima ... L'aggettivazione, inoltre, in termini di "grave e perdurante" stato di ansia o di paura e di "fondato" timore per l'incolumita', vale a circoscrivere ulteriormente l'area dell'incriminazione, in modo che siano doverosamente ritenute irrilevanti ansie di scarso momento, sia in ordine alla loro durata sia in ordine alla loro incidenza sul soggetto passivo, nonche' timori immaginari o del tutto fantasiosi della vittima. A tale ultimo riguardo, deve rammentarsi come spetti al giudice ricostruire e circoscrivere l'area di tipicita' della condotta penalmente rilevante sulla base dei consueti criteri ermeneutici, in particolare alla luce del principio di offensivita' (v. Corte costituzionale n. 139 del 2014 e n. 62 del 1986) ...». Con particolare riferimento alla prova dell'evento del delitto di atti persecutori, puo' ritenersi ormai consolidato l'orientamento della Suprema corte secondo cui l'accertamento di un grave e perdurante stato di ansia o di paura - pur non richiedendo necessariamente l'espletamento di una perizia medica (3) - deve essere ancorato ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneita' a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui e' stata consumata (4) . Da cio' consegue che al giudice non e' consentita una valutazione di astratta idoneita' della condotta (di minaccia o molestia) a menomare la liberta' morale della vittima, ma e' necessario in concreto l'accertamento di quale sia stata la risposta del soggetto passivo all'aggressione portata dall'agente. Poiche' almeno due dei tre eventi tipici (il fondato timore per l'incolumita' e il perdurante stato di ansia e di paura) afferiscono alla sfera interna, intima e psicologica della vittima (manifestandosi invece all'esterno il mutamento delle abitudini di vita), e' evidente come l'indagine devoluta al giudice sia particolarmente delicata, poiche' rischia di fatto di essere affidata alle sole affermazioni del soggetto passivo e alle particolari e mutevoli sfaccettature della sua sensibilita' personale, pur rilevanti quando conosciute dall'imputato e da questi valutate per portare a compimento il proprio intento persecutorio. Alla luce dei sopra richiamati principi ermeneutici, in questa sede e' sufficiente evidenziare che le risultanze dell'espletata istruttoria dibattimentale depongono per una ricostruzione della vicenda in termini fattuali e giuridici piu' riduttivi rispetto all'ipotesi accusatoria. In particolare, non e' emersa la sussistenza in capo alla persona offesa di un grave stato d'ansia o di effettivo timore per la propria incolumita', ne' un cambiamento significativo delle proprie abitudini di vita, eziologicamente ricollegabili ai comportamenti posti in essere dal S. In tal senso, rilevanza decisiva rivestono le dichiarazioni rese dalla stessa L., alla cui stregua puo' ritenersi che i predetti comportamenti - valutati nella loro reale e intrinseca gravita', in relazione alle concrete modalita' di manifestazione (sms telefonici, accessi non graditi presso il luogo di lavoro della persona offesa) - non abbiano travalicato i limiti di meri atteggiamenti molesti, il piu' delle volte di carattere ingiurioso e non esplicitamente intimidatori, quale sorta di degenerazione illecita di un'incapacita' dell'imputato di avere un confronto dialettico e civile con l'ex compagna dopo la definitiva cessazione (nel febbraio 2017) della loro relazione sentimentale. In tale prospettiva, il comportamento «ambiguo» tenuto dalla persona offesa dopo la presentazione dell'unica denuncia-querela, sostanziatosi nella volontaria accettazione di incontri con l'imputato mentre lo stesso era sottoposto alla misura cautelare di cui all'art. 282-ter del codice di procedura penale, appare dato fattuale alquanto incompatibile, sul piano logico, con la sussistenza in capo alla L. di una condizione psicologica di serio timore per la propria incolumita' o di effettivo condizionamento delle proprie abitudini di vita personale e sociale. Da qui, l'astratta idoneita' delle condotte poste in essere dal S. ad integrare i (piu' riduttivi) profili di illiceita' penale sanzionati dall'art. 660 del codice penale, in linea con l'orientamento della Suprema corte secondo cui ai fini della sussistenza del reato di molestie e' necessario che il comportamento sia connotato da «petulanza» - ossia da quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della liberta' delle persone - «o per altro biasimevole motivo», ovvero qualsiasi altra motivazione che sia da considerare riprovevole per se' stessa o in relazione alla persona molestata (5) . Non puo', invero, ragionevolmente dubitarsi dell'oggettiva idoneita' dei reiterati comportamenti ingiuriosi e assillanti posti in essere dall'imputato - in luogo aperto al pubblico e soprattutto per telefono - ad arrecare alla persona offesa molestia e disturbo, ponendola in situazioni di disagio psicologico e alterandone le normali condizioni di tranquillita'. Al riguardo, mette conto evidenziare che l'attendibilita' delle dichiarazioni dibattimentali rese dalla L. risulta riscontrata dal tenore dei numerosi sms inviati dal S. (a riprova dell'atteggiamento ingiurioso e di arrogante invadenza del medesimo), oggettivamente petulanti e che hanno inciso sgradevolmente nella sfera privata della persona offesa, la quale, di conseguenza, e' stata condizionata nella possibilita' di vivere una quotidianita' serena sia nei rapporti con terze persone, sia in ambito lavorativo. 2.2. Come gia' accennato in premessa, nella prospettiva, emersa soltanto all'esito dell'istruttoria dibattimentale, di una «correzione» della mera qualificazione giuridica del «fatto» addebitato all'imputato (cosi' come descritto nel capo di imputazione) (6) ed in mancanza di una formale iniziativa in tal senso da parte del pubblico ministero (7) , questo giudice ha inteso garantire - prima della deliberazione della sentenza - il contraddittorio argomentativo (ed eventualmente probatorio) della difesa sul punto, pur non ignorando i profili di criticita' operativa connessi ad una tale opzione processuale, comunque imposta da una interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente orientata dell'art. 521, comma 1, del codice di procedura penale (8) . Al riguardo, possono ritenersi ormai consolidati nella giurisprudenza sovranazionale i principi ricavabili dall'art. 6, § 1 e 3 lettere a) e b) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, cosi' come enucleati in via interpretativa dalla Corte di Strasburgo (9) . In estrema sintesi, e' noto che a fondamento di tali approdi ermeneutici - i quali rivestono il rango di fonti interposte integratrici del precetto di cui all'art. 117, primo comma della Costituzione, che il giudice italiano e' tenuto ad applicare, a condizione della loro conformita' alla Costituzione e di compatibilita' con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti (10) - rilevanza centrale ed assorbente viene attribuita alla garanzia «infomativa» dovuta al soggetto nei cui confronti sia stata formulata un'accusa penale. In particolare, e' stato chiarito che l'art. 6, § 3, lettera a), CEDU riconosce all'imputato il diritto ad essere informato, in termini dettagliati, non solo dei «fatti materiali» addebitatigli, ma anche della qualificazione giuridica degli stessi e di ogni possibile loro modificazione nel corso del giudizio. La reale portata applicativa di tale principio va, infatti, valutata in relazione al piu' generale diritto ad un processo «equo», garantito dal § 1 dell'art. 6 della Convenzione, pur non prevedendo la normativa convenzionale, in termini espliciti e tassativi, forme particolari con le quali la predetta garanzia «informativa» debba essere in concreto assicurata all'accusato. Cio' posto, puo' ritenersi altrettanto pacifica l'esistenza di una stretta correlazione tra le lettere a) e b) dell'art. 6, § 3, nel senso che il diritto di essere informati della natura e dei motivi dell'accusa deve intendersi funzionale a consentire al soggetto accusato di disporre di un tempo sufficiente per preparare la propria difesa, il cui efficace esercizio non puo' non essere riferito anche ad una eventuale «modifica» della definizione giuridica dell'accusa complessivamente considerata (non limitata, cioe', alla sua componente «fattuale»), e la cui tutela risulta, quindi, strettamente ancorata ad un inderogabile diritto dell'imputato ad ottenere, in tempo utile, una dettagliata informazione sul punto. Ne deriva che il mutamento del nomen iuris, che non sia preceduto da uno spazio di contraddittorio tra le parti sugli effetti della riqualificazione e da condizioni favorevoli a predisporre strumenti difensivi adeguati a confutare la nuova veste dell'accusa, risulta incompatibile con le garanzie del processo equo cosi' come interpretate dalla Corte EDU, in un'ottica di progressivo innalzamento dello standard di protezione dei diritti dell'accusato di fronte al potere giudiziale di inquadrare diversamente il fatto (11) . A tale assestamento del diritto giurisprudenziale di matrice comunitaria, come e' noto, hanno fatto da contrattare gli sforzi interpretativi dell'organo di nomofilachia del nostro ordinamento, finalizzati a ritagliare spazi per un'opzione ermeneutica dell'art. 521, comma 1 del codice di procedura penale conforme ai dicta del giudice europeo e al principio tutelato dall'art. 111, terzo comma della Costituzione. Si e', pertanto, affermato che la garanzia del contraddittorio deve essere assicurata all'imputato anche in ordine ad un'eventuale diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice ex officio. In particolare, a fronte della chiara formulazione letterale dell'art. 521, comma 1 del codice di procedura penale - ed incontestabile il potere del giudice di attribuire in sentenza al fatto, emergente dalle risultanze processuali, una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione - anche di recente e' stato ribadito che tale potere non puo' essere esercitato «a sorpresa» ma solo a condizione di una preventiva promozione, ad opera del giudice e sin dalla fase di merito, del contraddittorio fra le parti sulla relativa questione, atteso che la difesa ben puo' diversamente atteggiarsi (quanto alle opzioni strategiche) e modularsi (sul piano tattico) in rapporto alla differente qualificazione giuridica della condotta, rispetto alla quale le emergenze processuali assumono, a loro volta, diversa e nuova rilevanza, e cio' anche nel caso di nuova e diversa qualificazione con ricadute sanzionatorie piu' favorevoli per il giudicabile (cfr. Cassazione 19 gennaio 2018, n. 2340, nonche' Cassazione 30 maggio 2016, n. 22731, tra l'altro in una fattispecie concreta sovrapponibile a quella per cui e' processo; v. anche Cassazione n. 18590/11; Cassazione n. 20500/10); in linea con la citata giurisprudenza della Corte EDU per la quale e' circostanza del tutto ininfluente che all'imputato sia irrogata una pena inferiore quale conseguenza della derubricazione del fatto addebitatogli, assumendo, per contro, rilevanza decisiva l'eventuale vulnus arrecato alla difesa dalla riqualificazione giuridica in se', effettuata dal giudice in assenza del contributo dialettico delle parti (12) . 2.3. Tuttavia, a fronte della persistente assenza di un intervento organico in materia da parte del legislatore, l'operata estensione in via interpretativa del regime di tutela «sostanziale» del diritto al contraddittorio su ogni eventuale «modifica» - sia in fatto che del titolo giuridico - dell'imputazione ha inevitabilmente intercettato e ampliato i delicati profili di criticita' applicativa afferenti alla tematica del rapporto tra tali vicende modificative e l'accessibilita' ai riti alternativi; problematiche applicative che, come era prevedibile, hanno reso necessari plurimi e disorganici interventi di carattere additivo del giudice delle leggi che (ancorche' riferiti alle sole modifiche «fattuali» disciplinate dagli articoli 516 e 517 del codice di procedura penale) hanno (ri)disegnato, nel corso degli anni e in un'ottica progressivamente evolutiva di tutela costituzionalmente avanzata del diritto di difesa, i casi e i margini di esercizio da parte dell'imputato della facolta' di scelta di riti alternativi al dibattimento, e cio' sulla base di itinerari argomentativi fin troppo noti e che appare non superfluo richiamare negli stretti limiti di rilevanza concretache gli stessi, a parere di questo giudice, assumono sul piano della ritenuta non manifesta infondatezza della questione oggetto del presente incidente di costituzionalita'. In tale prospettiva, va in primo luogo evidenziato che risale a epoca immediatamente successiva all'introduzione del vigente codice di procedura penale, l'affermazione della Corte costituzionale secondo cui «la richiesta di riti alternativi costituisce una modalita', tra le piu' qualificanti, di esercizio del diritto di difesa (v. ex plurimis, sentenze n. 76 del 1993, n. 497 del 1995, n. 70 del 1996, n. 148 e n. 219 del 2004). Coerentemente a tale affermazione di principio, e' stata in piu' occasioni dichiarata l'illegittimita' costituzionale di disposizioni del codice di rito nella parte in cui non consentivano all'imputato di essere rimesso in termini al fine di esercitare l'eventuale opzione per meccanismi di definizione alternativa o anticipata del procedimento allorche', in esito al giudizio celebrato con rito ordinario, gli venisse contestato un fatto diverso o un reato concorrente che risultava gia' dagli atti di indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale, e che pertanto il pubblico ministero ben avrebbe potuto contestargli gia' in quel momento, si' da porlo in condizione di esercitare il proprio diritto di difesa in merito alla scelta del rito (v. in particolare, sentenza n. 265 del 1994, in relazione al patteggiamento, e sentenza n. 333 del 2009, in relazione al rito abbreviato). Per un'esaustiva ricostruzione diacronica delle «tappe» salienti di tale progressivo percorso di riallineamento costituzionale della disciplina codicistica - tracciate dai plurimi interventi di carattere «additivo», resisi necessari dal perdurante silenzio del legislatore in materia - e' sufficiente rimandare alla motivazione della recente sentenza n. 82 del 2019. Per quel che qui rileva, mette conto evidenziare il passaggio argomentativo della citata pronuncia nella parte in cui viene confermato il principio innovativo (gia' affermato nelle precedenti sentenze n. 237 del 2012, n. 273 del 2014, n. 206 del 2017 e n. 141 del 2018) secondo cui quando l'accusa originaria e' modificata nei suoi aspetti essenziali, «non possono non essere restituiti all'imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni. La modificazione dell'imputazione, oltre ad alterare in modo significativo la fisionomia fattuale del tema d'accusa, puo' avere riflessi di rilievo sull'entita' della pena irrogabile e, di conseguenza, sull'incidenza quantitativa dell'effetto premiale connesso al rito speciale ...». Cio' a prescindere dalle modalita' - «fisiologiche» o «patologiche» - di emersione del dato probatorio che sorregge l'aggiornamento dibattimentale dell'accusa da parte del pubblico ministero, con consequenziale superamento definitivo del criterio fondato su un onere di «prevedibilita'», da parte dell'imputato, di una tale evenienza processuale, sull'assorbente rilievo argomentativo che «l'accesso al rito alternativo dopo l'inizio del dibattimento rimane comunque idoneo a produrre un'economia processuale, anche se attenuata, e che in ogni caso le ragioni della deflazione processuale debbono recedere di fronte ai principi posti dagli articoli 3 e 24, secondo comma della Costituzione, perche' l'esigenza della «corrispettivita'» fra riduzione di pena e deflazione processuale non puo' prendere il sopravvento sul principio di eguaglianza ne' tantomeno sul diritto di difesa» (in tali termini testuali la sentenza n. 141 del 2018). In altri termini, secondo il giudice delle leggi «non si puo' pretendere che l'imputato valuti la convenienza di un rito speciale tenendo conto anche dell'eventualita' che, a seguito dei futuri sviluppi dell'istruzione dibattimentale, l'accusa a lui mossa subisca una trasformazione, la cui portata resta ancora del tutto imprecisata al momento della scadenza del termine utile per la formulazione della richiesta» (sentenza n. 273 del 2014). In una prospettiva ermeneutica incentrata essenzialmente sulla «non addebitabilita'» all'imputato dello spirare del termine «fisiologico» per la scelta dei riti alternativi, risulta evidente che una tale opzione «non puo' non presupporre un completamento della imputazione elevata nei suoi confronti. Solo attraverso una esauriente e tempestiva cristallizzazione del quadro di accusa e' infatti possibile assegnare un termine per l'esercizio di facolta' processuali che - come le scelte sui riti alternativi - con quel quadro devono necessariamente misurarsi, traendo esse naturale alimento proprio dalla natura e specificazione delle fattispecie incriminatrici e dalle correlative basi fattuali ...»; fino ad arrivare alla enunciazione di quello che puo' ritenersi l'approdo quasi definitivo della giurisprudenza costituzionale sul tema (in quanto connotato da una pregnante valenza ermeneutica di principio generale e nel contempo quale monito indiretto al «reticente» legislatore), il cui fulcro argomentativo, rilevante nell'economia motivazionale del presente incidente di costituzionalita', risulta esplicitato nei seguenti termini testuali: «... Se, dunque, la possibilita' di richiedere i riti alternativi si salda a fil doppio al diritto di difesa - in particolare, al diritto di scegliere il modello processuale piu' congeniale all'esercizio di quel diritto - e se e' la regiudicanda, nelle sue dimensioni «cristallizzate», a costituire la base su cui operare tali scelte, non puo' che desumersi la incoerenza con quel diritto di qualsiasi preclusione che ne limiti l'esercizio concreto, tutte le volte in cui il sistema ammetta una mutatio libelli in sede dibattimentale ...» (sentenza n. 82 del 2019). Del resto, tale (ri)assetto, in chiave costituzionalmente orientata, del quadro normativo di riferimento, risulta in linea con il sopra richiamato indirizzo consolidato espresso dalla Corte EDU riguardo alle condizioni necessarie e sufficienti per una tutela effettiva del diritto di difesa in rapporto all'aggiornamento dell'accusa, in relazione al quale scorciatoie ermeneutiche di carattere sostanzialmente presuntivo, basate su un giudizio di prevedibilita' della mutatio libelli da parte dell'imputato, devono ritenersi non compatibili con quanto previsto dall'art. 6, commi 1 e 3, lettere a) e b) della Convenzione EDU. 3. In tale prospettiva, con specifico riferimento all'istituto dell'oblazione (e quale unica eccezione all'atteggiamento di assoluta e persistente ritrosia verso interventi di riforma dell'impianto codicistico in materia), mette conto evidenziare che il legislatore nazionale - nel recepire, a livello normativo, gli effetti della sentenza n. 530 del 1995 del giudice delle leggi (dichiarativa della illegittimita' costituzionale degli articoli 516 e 517 del codice di procedura penale nella parte in cui non prevedevano la facolta' dell'imputato di proporre domanda di oblazione, ai sensi degli articoli 162 e 162-bis del codice penale, relativamente al fatto diverso e al reato concorrente contestato in dibattimento) - e' intervenuto sull'art. 141 disp. att. del codice di procedura penale, aggiungendo, con l'art. 53 della legge 16 dicembre 1999, n. 479, il comma 4-bis, il quale, nella sua attuale formulazione, prevede testualmente che «In caso di modifica dell'originaria imputazione in altra per la quale sia ammissibile l'oblazione, l'imputato e' rimesso in termini per chiedere la medesima. Il giudice, se accoglie la domanda, fissa un termine non superiore a dieci giorni, per il pagamento della somma dovuta. Se il pagamento avviene nel termine il giudice dichiara con sentenza l'estinzione del reato». Alla luce del chiaro tenore letterale e della ratio della disposizione normativa in esame, puo' convenirsi con la piu' attenta dottrina che, proprio in virtu' di quanto statuito dalla citata pronuncia del 1995 della Corte costituzionale, riconosce alla stessa un proprio spazio operativo ben piu' ampio rispetto a quello della disciplina degli altri riti alternativi al dibattimento, con particolare riferimento al giudizio abbreviato e al patteggiamento. Ai fini dell'applicazione della norma, infatti, non rileva che l'aggiornamento dell'accusa dipenda da un'evoluzione fisiologica e prevedibile del quadro cognitivo oppure da una condotta anomala e imprevedibile del pubblico ministero. Lo scopo deflattivo del dibattimento proprio dell'oblazione e' raggiunto indipendentemente dal momento in cui si realizza la modifica dell'accusa. Quando l'emendatio libelli avvenga in via anticipata, ossia prima ancora che si apra l'istruzione dibattimentale, l'effetto estintivo dell'oblazione si realizza all'esito di una sequenza pienamente alternativa a quella della fase dibattimentale; quando, invece essa avvenga solo all'esito dell'istruzione dibattimentale, l'oblazione evita il dispendio di risorse conseguente al necessario riconoscimento dei diritti delle parti ex art. 519 del codice di procedura penale. D'altra parte, tale ricostruzione risulta coerente con il principale effetto di carattere sostanziale che connota l'istituto dell'obiezione (e che nel contempo lo distingue dagli altri procedimenti speciali) (13) , rappresentato dalla possibilita' per l'imputato di ottenere, attraverso il pagamento della somma stabilita dal giudice, l'estinzione della rilevanza penale della condotta (art. 162, comma 2 del codice penale: «Il pagamento estingue il reato»; art. 162-bis, comma 6 del codice penale: «Il pagamento delle somme indicate nella prima parte del presente articolo estingue il reato»), dovendosi rilevare, di conseguenza, l'incidenza significativa e «prevalente» che tale modalita' di esercizio del diritto di difesa, di per se', e' destinata ad assumere rispetto alle esigenze di deflazione processuale. Cio' posto, ritiene questo giudice che il riconoscimento esplicito, previsto dal comma 4-bis dell'art. 141 disp. att. del codice di procedura penale, della facolta' dell'imputato di proporre domanda di oblazione - nonostante la scadenza del termine di proponibilita' rappresentato dall'avvenuta dichiarazione di apertura del dibattimento - nei soli casi di modifiche «fattuali» dell'originaria imputazione e non anche nelle ipotesi di eventuale modifica, su iniziativa del giudice, di un aspetto fondamentale del thema decidendum, ovvero il tema della norma applicabile, sconti un vizio di incompatibilita' con il principio dell'inviolabilita' del diritto di difesa costituzionalmente garantito in ogni stato e grado del procedimento (art. 24, secondo comma della Costituzione). Il legislatore, invero, non sembra aver colto la valenza ermeneutica potenzialmente «estensiva» del principio enunciato nella citata sentenza n. 530 del 1995 (definitivamente consacrato nelle recenti pronunce sopra richiamate), ovvero l'oggettiva impossibilita' per l'imputato di chiedere l'obiezione prima della «modifica» dell'imputazione, avendo la Corte costituzionale reputato irragionevole e non compatibile con la tutela del diritto di difesa l'evanescente criterio dell'accettazione del rischio della «fluidita'» (fisiologica o patologica) dell'imputazione nel corso del dibattimento. Argomenta(va) testualmente la Corte: «... L'istituto dell'obiezione si fonda sia sull'interesse dello Stato di definire con economia di tempo e di spese i procedimenti relativi ai reati di minore importanza, sia sull'interesse del contravventore di evitare l'ulteriore corso del procedimento e la eventuale condanna, con tutte le conseguenze di essa (cfr. sentenza n. 207 del 1974). Effetto tipico di tale forma di definizione anticipata del procedimento e', infatti, la estinzione del reato, per cui appare del tutto evidente come la domanda di ammissione all'oblazione esprima una modalita' di esercizio del diritto di difesa. Cio' posto, considerate la natura e la funzione dell'istituto in esame sopra indicate, la preclusione dell'accesso al medesimo - e ai connessi benefici - nel caso in cui il reato suscettibile di estinzione per oblazione costituisca oggetto di contestazione nel corso dell'istruzione dibattimentale, ai sensi dell'art. 517 del codice di procedura penale, risulta indubbiamente lesiva del diritto di difesa, nonche' priva di razionale giustificazione. L'avvenuto superamento del limite temporale (apertura del dibattimento) previsto, in linea generale, per la proposizione della domanda di oblazione (e la cui ratio e' quella di evitare che l'imputato possa vanificare l'attivita' processuale a seconda degli esiti del dibattimento) non e', infatti, nel caso in esame, riconducibile a libera scelta dell'imputato, e cioe' ad inerzia al medesimo addebitabile, sol che si consideri che la facolta' in discussione non puo' che sorgere nel momento stesso in cui il reato e' oggetto di contestazione ...». 3.1. Cio' premesso, e' noto come a fronte della riduttiva portata applicativa imposta dal tenore letterale del comma 4-bis dell'art. 141 disp. att. del codice di procedura penale - e consapevole delle potenziali ricadute in termini di deficit di tutela del diritto di difesa dell'imputato nelle ipotesi (non contemplate dalla norma) relative al rapporto tra «modifica» nel corso del giudizio della mera qualificazione giuridica del fatto originariamente contestato e la consequenziale possibilita' di accesso al procedimento di oblazione -, la giurisprudenza di legittimita' abbia tracciato, nel corso degli anni, «sentieri» ermeneutici alla ricerca affannosa di una soluzione, ragionevole e costituzionalmente conforme, della delicata problematica. In estrema sintesi, al di la' di un'unica pronuncia, tra l'altro intervenuta in epoca precedente alla novella del 1999 (e rimasta isolata nel panorama giurisprudenziale formatosi negli anni successivi) (14) , la Suprema corte - nel comporre un contrasto registratosi al suo interno sul tema delle modifiche subite dalla imputazione al di fuori delle contestazioni del pubblico ministero ed ai riverberi che da cio' scaturivano sul piano della possibilita' di attivare il procedimento per oblazione (e di quali fossero le relative forme processuali) in rapporto alla diversa qualificazione della regiudicanda - con la sentenza delle Sezioni unite n. 7645 del 28 febbraio 2006, Autolitano, afferma il principio secondo cui la disposizione dell'art. 141 disp. att. del codice di procedura penale, comma 4-bis non trova applicazione in assenza di una formale modifica della contestazione da parte del pubblico ministero ed in presenza di una diversa qualificazione giuridica del fatto operato dal giudice nella sentenza. In particolare, nella citata pronuncia viene ribadito che il diritto dell'imputato a fruire della oblazione risulta tutelato solo nell'ipotesi in cui nel corso del dibattimento il pubblico ministero modifichi la contestazione e qualifichi il fatto secondo un'ipotesi di reato che, a differenza di quella originariamente addebitata, consente l'applicazione della disciplina relativa alla oblazione. Secondo il predetto principio, l'imputato, per essere ammesso ad estinguere un reato non originariamente contestato come oblabile con ratto di esercizio della azione penale, deve presentare, in forma preventiva, l'istanza di oblazione, per l'ipotesi di un futuro o possibile mutamento del fatto. Sull'imputato grava, quindi, un onere di attivazione, con presentazione di una espressa istanza di oblazione tesa a sollecitare una diversa e piu' favorevole qualificazione giuridica del fatto, posto che, in mancanza, la dinamica del procedimento e l'esigenza del contraddittorio precludono l'accesso al beneficio, ove alla modifica della imputazione provveda direttamente il giudice con la sentenza di condanna. In altri termini, l'imputato, nell'esercizio del proprio diritto di difesa, non deve cristallizzare le proprie opzioni sull'esclusiva falsariga della contestazione che gli viene formalmente mossa, ma deve altresi' misurarsi con la possibilita' di attribuire al fatto un diverso nomen iuris,v e contestualmente chiedere, in base alla «piu' favorevole» qualificazione del reato, di esercitare il proprio diritto di estinguerlo attraverso l'oblazione. In caso contrario, non puo' dolersi dell'impossibilita' di beneficiare del beneficio in questione. Cio' posto, sollecitate a dirimere i dubbi interpretativi registratisi in ordine all'apparente perentorieta' di tali principi ermeneutici - ed in particolare a dare una risposta definitiva al quesito se la restituzione nei termine per proporre la domanda di oblazione trovi applicazione solo nel caso in cui la modifica della imputazione avvenga ad opera del pubblico ministero ovvero anche nella ipotesi in cui sia il giudice ad attribuire al fatto una diversa qualificazione giuridica, che consenta l'applicazione dell'oblazione, prescindendo dalla preventiva richiesta dell'imputato -, le Sezioni unite sono di nuovo intervenute con la sentenza n. 32351 del 22 luglio 2014, T. In sostanziale continuita' argomentativa con quanto affermato dalla precedente sentenza del 2006, la Suprema corte ha ribadito e puntualizzato che «ove la qualificazione del fatto integri un reato la cui pena edittale non consenta il procedimento per oblazione, e' onere dell'imputato sindacare la correttezza della qualificazione stessa, investendo il giudice di una richiesta specifica con la quale formuli istanza di oblazione in riferimento alla qualificazione giuridica del fatto che ritenga corretta; in modo tale da permettere, all'esito del necessario contraddittorio, una decisione altrettanto specifica sul punto, con gli evidenti e naturali riverberi in sede di impugnazione. Solo in presenza di un'effettiva domanda di oblazione e' infatti possibile soddisfare l'esigenza del contraddittorio e il rispetto delle regole sancite dal procedimento scandito dell'art. 141 disp. att. del codice di procedura penale, con la conseguenza di permettere al pubblico ministero di interloquire e, al tempo stesso, investire formalmente il giudice della questione». Quale argomento principale addotto a sostegno di tale epilogo ermeneutico, viene evidenziato che a proposito dei rapporti (e delle possibili frizioni) che ineluttabilmente vengono a stabilirsi tra contestazione e diritto di difesa - rappresentando la prima il fisiologico «oggetto» del secondo - non puo' non sottolinearsi come le modalita' attraverso le quali puo' esprimersi quel diritto sono indubbiamente le piu' varie, e tra queste va annoverata anche la scelta dei riti alternativi, e, per quanto qui rileva, anche la possibilita' di beneficiare del procedimento di oblazione. Ma si tratta di un diritto che, ferma restando la identificazione del fatto storico che viene addebitato ... non puo' non formare oggetto di una disamina «critica,» proprio in vista della correttezza o meno del nomen iuris a quel fatto attribuito dal pubblico ministero. Alla difesa come diritto, infatti, deve necessariamente riconnettersi anche - proprio sul versante dell'indispensabile contraddittorio fra le parti ed ai fini dei petita da rivolgere al giudice - uno specifico onere di interlocuzione su tutti i punti che costituiscono oggetto della devoluzione; e cio' al fine di scongiurare l'insorgere di effetti preclusivi che il sistema e' fisiologicamente chiamato a predisporre a salvaguardia dello stesso ordo iudiciorum. In una prospettiva siffatta, nella ipotesi in cui l'imputato - a fronte di «una contestazione in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l'applicazione di misure di sicurezza, con l'indicazione dei relativi articoli di legge» (art. 429 del codice di procedura penale, comma 1, lettera c), il tutto corroborato - ad ulteriore specificazione - dalla «indicazione delle fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono» (lettera d della disposizione sopra richiamata) - ometta di contestare la non pertinenza del nomen iuris alla fattispecie dedotta in rubrica, assumendo una posizione di nolo contendere su tale qualificante punto della futura decisione, nessun tipo di doglianza potra' essere formulata - circa le preclusioni che ne possono essere derivate per i riti alternativi - ove il giudice, in sede di decisione, abbia ritenuto di dare a quel fatto una diversa qualificazione giuridica. Si tratta, semplicemente, di esercitare il proprio diritto ad una qualificazione giuridica corretta, con le conseguenze che da cio' possono derivare proprio sul terreno della oblabilita' del reato; un diritto che, come si e' detto, rappresenta al tempo stesso un onere che, se non adempiuto, ben puo' far insorgere la preclusione temporale connessa alla procedura di oblazione, quale istituto idealmente teso ad evitare, e non a seguire, gli esiti del dibattimento ...». Va aggiunto che a tale principio di diritto si e' sostanzialmente uniformata la giurisprudenza successiva delle sezioni semplici, sia pure sulla base di ratio decidendi differenti, calibrate sulle particolarita' delle fattispecie processuali oggetto di giudizio (cfr. fra le tante: Sezione II, 19 gennaio 2019, n. 2211; Sezione III, 9 ottobre 2018, n. 50144; Sezione II, 30 maggio 2018, n. 41456; Sezione III, 25 giugno 2018, n. 40677; Sezione I, 9 maggio 2018, n. 51159; Sezione III, 23 marzo 2017, n. 37829; Sezione II, 21 febbraio 2017, n. 12416; Sezione III, 15 dicembre 2016, n. 5614; Sezione III, 30 giugno 2016, n. 36378; Sezione III, 23 giugno 2016, n. 40324; Sezione III, 22 marzo 2016, n. 22246; Sezione I, 27 novembre 2015, n. 22731; Sezione VII, 13 novembre 2015, n. 2951; Sezione III, 7 maggio 2015, n. 42680; Sezione I, 15 aprile 2015, n. 23383; Sezione III, 5 novembre 2014, n. 3380; Sezione I, 30 ottobre 2014, n. 53745). 3.2. Nel prendere atto dell'attuale portata applicativa dell'art. 141, comma 4-bis, disp. att. del codice di procedura penale, cosi' come delineata dalle sopra richiamate coordinate interpretative («diritto vivente») (15) offerte dall'organo di nomofilachia del nostro ordinamento anche nella sua piu' autorevole composizione, questo giudice ritiene che tale approdo ermeneutico non sia idoneo a «sanare» - in termini costituzionalmente compatibili (art. 24, secondo comma della Costituzione) con l'inviolabilita' dell'esercizio del diritto di difesa dell'imputato - l'aporia emergente dall'inequivocabile tenore letterale (16) della disposizione normativa in questione, della cui concreta applicabilita', nella fattispecie per cui e' processo, questo giudice risulta investito a seguito della domanda di oblazione presentata dall'imputato, per la prima volta, soltanto all'esito dell'istruzione dibattimentale, quindi oltre il termine di decadenza previsto dall'art. 162-bis del codice penale. In tale prospettiva, risulta dirimente rilevare che (al di la' dell'apodittica e formale «presa di distanza» operata sul punto) un'analisi in controluce delle argomentazioni sviluppate dalle Sezioni unite della Suprema corte nella citata sentenza n. 32351/2014, a sostegno del principio di diritto affermato, lascia trasparire una sorta di «riabilitazione» di fatto, per via ermeneutica, del criterio della «prevedibilita'», da parte dell'imputato, di un'eventuale e fisiologica emendatio iuris dell'originaria contestazione nel corso del dibattimento (17) , con consequenziale configurabilita' a carico dello stesso imputato di un onere specifico di sollecitazione preventiva del contraddittorio sul punto e di formulazione di una tempestiva e «cautelativa» domanda di oblazione, quale assorbente presupposto processuale di ammissibilita' o meno di accesso al predetto meccanismo di estinzione del reato contestato dall'accusa. Ebbene, deve rilevarsi che la configurabilita' di tale tipologia di oneri processuali non solo non risulta prevista da alcuna norma specifica del codice di rito, ne' tanto meno e' ricavabile da una lettura, per quanto evolutiva, dell'art. 141 disp. att. del codice di procedura penale nella sua attuale formulazione, ma, a ben vedere, risulta lesiva del diritto di difesa poiche' in contrasto con i principi affermati dalla sentenza n. 530 del 1995 e ribaditi, in termini perentori e con valenza ermeneutica generale, anche di recente dalla Corte costituzionale (v. la gia' citata sentenza n. 82 del 2019, nella parte in cui evidenzia che «... Se, dunque, la possibilita' di richiedere i riti alternativi si salda a fil doppio al diritto di difesa - in particolare, al diritto di scegliere il modello processuale piu' congeniale all'esercizio di quel diritto - e se e' la regiudicanda, nelle sue dimensioni «cristallizzate», a costituire (a base su cui operare tali scelte, non puo' che desumersi la incoerenza con quel diritto di qualsiasi preclusione che ne limiti l'esercizio concreto, tutte le volte in cui il sistema ammetta una mutatio libelli in sede dibattimentale ...»). Al riguardo, e' sufficiente osservare che - pur non potendosi negare l'oggettiva diversita' delle vicende modificative del fatto (nella sua dimensione storica) rispetto a quelle attinenti alta sua qualificazione giuridica (18) - risulta, altrettanto, innegabile che nelle ipotesi in cui (e la fattispecie per cui e' processo rappresenta un esempio emblematico) la prospettiva di una riqualificazione giuridica del fatto, originariamente contestato dal pubblico ministero, emerga soltanto dalle risultanze probatorie dibattimentali, l'avvenuto superamento del limite temporale previsto per la proposizione della domanda di oblazione, vale a dire l'apertura del dibattimento, «non puo' dirsi riconducibile ad una libera scelta dell'imputato, e cioe' ad un'inerzia allo stesso addebitabile, dal momento che la facolta' di proporre quella domanda non puo' che sorgere nel momento in cui il reato stesso e' oggetto di contestazione (19) «aggiornata» e da intendersi riferita, appunto, anche alla diversa definizione giuridica del titolo di reato, quale prerogativa funzionale del giudice ed a prescindere da un'eventuale iniziativa da parte dell'organo titolare dell'azione penale, sulla base di una corretta applicazione della consolidata giurisprudenza dei giudici europei in materia di diritto al contraddittorio garantito dall'art. 6, § 3, lettere a) e b) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (20) . 4. Ne deriva, che al rilevato, e non manifestamente infondato, profilo di contrasto con l'art. 24, secondo comma della Costituzione, puo' porre rimedio soltanto un intervento manipolativo/additivo del giudice delle leggi, che sancisca l'illegittimita' dell'art. 141, comma 4-bis, disp. att. del codice di procedura penale, nella parte in cui, secondo l'attuale diritto vivente, «condiziona» il diritto (difensivo) dell'imputato di proporre - nel corso del dibattimento ed in relazione ad una diversa e meno grave qualificazione giuridica del fatto oggetto dell'originaria contestazione - domanda di oblazione ad una specifica iniziativa in tal senso da parte dello stesso imputato, in via cautelativa ed entro il termine perentorio previsto dall'art. 162-bis del codice penale, anche nei casi in cui la prospettiva concreta di una diversa definizione giuridica del fatto, rispetto a quella originariamente contestata e per la quale l'oblazione non era ammissibile, sia emersa su iniziativa del giudice ed in assenza di una correlativa modifica formale dell'imputazione da parte del pubblico ministero. In tale prospettiva, comunque ispirata al principio secondo cui «il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialita' insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti ...» (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 317 del 2009), non e' superfluo osservare che se da un lato l'auspicato intervento «additivo», per le ragioni sopra evidenziate, deve ritenersi costituzionalmente imposto, dall'altro non risulta necessario e pertinente estendere (21) i dubbi di illegittimita' costituzionale all'art. 521, comma 1 del codice di procedura penale. Tale disposizione normativa, infatti, continua a conservare spazi di autonomia applicativa non intrinsecamente irragionevoli (art. 3 della Costituzione) (22) e comunque compatibili con i parametri di cui agli articoli 111 e 24 della Costituzione, laddove convenzionalmente e costituzionalmente interpretata nel senso del riconoscimento all'imputato del diritto al contraddittorio argomentativo e probatorio (23) sulle «modifiche» della definizione giuridica dell'accusa, ma non anche, necessariamente ed in via generale, del diritto ad essere rimesso in termini per avanzare eventuali richieste di riti alternativi, come di recente ribadito anche dalla Corte di giustizia UE (24) e dalla Corte costituzionale (25) . (1) non venendo in rilievo, nel caso di specie, l'ipotesi disciplinata dal comma 5 del citato art. 162-bis del codice penale, a norma del quale «[...] La domanda puo' essere riproposta sino all'inizio della discussione finale del dibattimento di primo grado ...». (2) Sui criteri di valutazione delta testimonianza della persona offesa: cfr. Cassazione 21 giugno 2016, n. 25680, in continuita' argomentativa con Sezioni unite 19 luglio 2012, n. 41461; Cassazione 24 settembre 2015, n. 43278. (3) Cassazione 8 maggio 2014, n. 18999. (4) Cfr. Cassazione 3 dicembre 2014, n. 50746; Cassazione 16 dicembre 2014, n. 52260; Cassazione 8 febbraio 2016, n. 5011; Cassazione 16 marzo 2017, n. 12799; Cassazione 22 febbraio 2018, n. 8744. (5) V. Cassazione 7 novembre 2013, n. 32758; Cassazione 23 novembre 2010, n. 43439; Cassazione 8 luglio 2010, n. 29933. (6) Sul punto e' doveroso il richiamo del principio della «nozione funzionale del fatto» recepito dall'orientamento costante della giurisprudenza di legittimita' secondo cui, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto «occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa» (Cfr. Sezione unica, 15 luglio 2010, n. 36551; Sezione unica, 19 giugno 1996, n. 16). (7) Evenienza quest'ultima dalla giurisprudenza di legittimita' in astratto ritenuta comunque ammissibile, facendo leva sull'art. 516 del codice di procedura penale, sia pure con riguardo a quanto previsto dall'art. 423, comma 1 del codice di procedura penale (cfr. Cassazione, Sezione unica, 19 giugno 1996, cit.; Sezione VI, 11 novembre 1998, Manno). (8) Cfr. Cassazione n. 6211/15 secondo cui non costituisce indebita anticipazione di giudizio il provvedimento con il quale il giudice inviti, in qualsiasi fase del procedimento, le parti ad interloquire sulla qualificazione giuridica del fatto, trattandosi di una prerogativa rientrante nell'esercizio delle sue funzioni e non di una manifestazione indebita del proprio convincimento sui fatti oggetto di imputazione, posto che siffatta interlocuzione e' imposta dall'art. 6, par. 1 e 3, lettere a) e b) della C.E.D.U. (9) Cfr. ex plurimis Corte EDU, Grande Camera, 25 marzo 1999, Pellissier e Sassi c. Francia, §§ 51-54; Corte EDU, 11 dicembre 2007, Drassich c, Italia, §§ 31-34; Corte EDU, 28 febbraio 2002, D.C. c. Italia; Corte EDU, 24 luglio 2012, D.M.T. e D.K.I. c. Bulgaria, § 80. (10) V. Corte costituzionale, sentenze n. 348/07 e n. 349/07, cui hanno fatto seguito, in una prospettiva di progressiva puntualizzazione, Corte costituzionale n. 317/09, n. 113/11, n. 308/13 e, da ultimo, Corte costituzionale, 26 marzo 2015, n. 49, secondo cui il giudice nazionale e' vincolato all'osservanza non di qualsivoglia sentenza della Corte EDU, ma solo delle sentenze costituenti «diritto consolidato» o delle sentenze cd. «pilota». (11) Sotto tale ultimo profilo, si e' osservato in dottrina che dall'analisi «dell'excursus giurisprudenziale europeo in materia emerge come l'indagine tesa a verificare l'eventuale lesione del diritto di difesa nella peculiare sfaccettatura considerata dall'art. 6, § 3, lettera a) CEDU, abbia progressivamente mutato i parametri valutativi di riferimento. Inizialmente, i giudici europei ritenevano violato il dettato convenzionale ogniqualvolta la riqualificazione risultasse imprevedibile, in quanto la fattispecie contestata non era esplicitata in maniera comprensiva anche della sua qualificazione giuridica potenziale; ovvero, fosse plausibile l'impiego di strumenti probatori e argomentazioni diverse da parte della difesa la' dove avesse potuto tenere conto sin dall'inizio della rubricazione poi attribuita in sede decisoria. Da ultimo, invece, per ritenere la incompatibilita' con i canoni convenzionali, alla Corte basta che la variazione del titolo di reato sia sfuggita al previo contraddittorio, a prescindere dal riscontro in concreto della lesione del diritto di difesa». (12) Senza considerare l'oggettiva difficolta' di «classificare» gli effetti della riqualificazione in «positivi» e in «negativi», ben potendo, come evidenziato in dottrina, «la sussunzione del fatto di cui alla imputazione sotto una fattispecie punita piu' lievemente, determinare comunque ricadute peggiorative o, lato sensu, negative sull'imputato con riferimento non solo al quadro sanzionatorio della nuova fattispecie, ma anche, in termini strettamente processuali, alle facolta' difensive variamente spendibili dall'imputato medesimo». (13) V. in tal senso anche Corte costituzionale n. 237 del 2012 cit. (14) Si tratta di Cassazione n. 11706 del 1998. (15) Il richiamo all'esistenza di un «diritto vivente» (sul cui concetto v. Corte costituzionale n. 177 del 2006) quale limite all'attivita' interpretativa «adeguatrice» del giudice di merito (che non intenda discostarsene) e, nel contempo, quale presupposto di ammissibilita' di un eventuale incidente di legittimita' costituzionale, costituisce ormai uno strumento assai diffuso nella giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. fra le tante, sentenze n. 350 del 1997, n. 239 e n. 317 del 2009, n. 338 del 2011, n. 117 del 2012, n. 191 del 2013). (16) Cfr. Corte costituzionale sentenze n. 170 del 2013, n. 78 e n. 110 del 2012, secondo cui «la lettera della norma impugnata, il cui significato non puo' essere valicato neppure per mezzo dell'interpretazione costituzionalmente conforme, non consente in via interpretativa di conseguire l'effetto che solo una pronuncia di illegittimita' costituzionale puo' produrre». Negli stessi sostanziali termini, sentenze n. 270 e n. 315 del 2010, n. 221 del 2015, n. 253 del 2017. (17) Parametro da ritenersi ormai non piu' conforme ai canoni costituzionali (v. in tal senso Corte costituzionale n. 141/18, e gia' in precedenza sentenze n. 206 e n. 272 del 2017). (18) Argomento quest'ultimo anch'esso utilizzato dalla Suprema corte nella sentenza T. (19) In tali termini, Corte costituzionale n. 530 del 1995. (20) Profilo quest'ultimo affrontato dalla Sezioni unite in termini alquanto opinabili, distinguendo le ipotesi di riqualificazione giuridica «peggiorativa» da quelle «migliorative» della posizione dell'imputato: «... Cio' che dunque risalta nella decisione della Corte EDU, cosi' come in altre occasioni in cui la medesima Corte ebbe ad affrontare il tema della modifica della imputazione (v. fra le altre, le sentenze 1° marzo 2001, Dallos c. Ungheria; 20 aprile 2006, I.H. c. Austria; 3 luglio 2006, Vesque c. Francia) e' che la diversa qualificazione dei fatti ha assunto specifici connotati agli effetti del rispetto dei principi del giusto processo e della conoscenza della accusa, in tutti i casi in cui lo ius variandi riconosciuto da vari ordinamenti ai giudici si accompagni a modifiche le quali, per la loro natura, siano in grado di influire in peius sul trattamento dell'imputato. In tal modo coinvolgendo direttamente le facolta' difensive, compromesse "inopinatamente" da un aggravamento del quadro dell'accusa. Una prospettiva, dunque, del tutto diversa dalla ipotesi che viene qui in risalto, per la quale, vertendosi in tema di emendatio libelli migliorativa, la stessa poteva (e doveva) formare oggetto di una domanda - ai fini della attivazione del procedimento di oblazione - che l'imputato stesso - e la sua difesa tecnica - erano in grado di devolvere al giudice, senza la necessita' di chiamare in causa una ipotetica "sufficiente prevedibilita'" della diversa qualificazione giuridica assegnata al fatto dal giudice nella sentenza di condanna ...». (21) Ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87. (22) Proprio in considerazione dell'ontologica diversita' tra le modifiche dibattimentali - «sostitutive» (art. 516 del codice di procedura penale) e «suppletive» (art. 517 del codice di procedura penale) - che attengono al «fatto» oggetto dell'originaria contestazione, riservate all'iniziativa del pubblico ministero, quale dominus esclusivo dell'azione penale e in ordine alle quali il giudice del dibattimento non puo' esercitare alcun sindacato preventivo di ammissibilita', a differenza del «giudizio di diritto» disciplinato, appunto, dall'art. 521, comma 1 del codice di procedura penale, ed in concreto legittimamente esercitabile dal giudice in sede deliberazione della sentenza (cfr. sul punto, Corte costituzionale, sentenza n. 103 del 2010, nonche', fra le tante, Cassazione, 11 febbraio 2016, n. 18112, secondo cui e' da ritenersi abnorme, perche' determina un'indebita regressione del procedimento, l'ordinanza con cui il giudice disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero, ritenendo che il fatto vada inquadrato in una diversa fattispecie criminosa, quando non sia ravvisabile un mutamento degli elementi essenziali del fatto contestato, ma esclusivamente una diversa qualificazione giuridica dello stesso). (23) Cfr. sotto tale ultimo profilo Corte EDU, Sezione I, 22 febbraio 2018, Drassich c. Italia. (24) V. Corte di giustizia, Prima sezione, sentenza 13 giugno 2019, causa C-646/17, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale sull'interpretazione dell'art. 2, paragrafo 1, dell'art. 3, paragrafo 1, lettera c), e dell'art. 6, paragrafi da 1 a 3, della direttiva 2012/13/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2012, sul diritto all'informazione nei procedimenti penali, nonche' dell'art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Nel caso di specie, la controversia principale verteva sulla possibilita', in caso di modifica della qualificazione giuridica dei fatti su cui si basava l'imputazione, di domandare l'applicazione di una pena su richiesta, ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penate, nel corso del dibattimento, con contestuale riapertura dei termini di presentazione della relativa istanza; dubbio interpretativo al quale la Corte di Lussemburgo ha dato una risposta negativa (v. § 65, § 69 e § 72 della sentenza). (25) Cfr., da ultimo, Corte costituzionale n. 131 del 2019, che in una fattispecie processuale, tuttavia, non sovrapponibile a quella in esame - poiche' connotata dall'avvenuta presentazione da parte della difesa di una rituale e tempestiva richiesta, entro i termini di legge, di rito alternativo (erroneamente rigettata dal giudice) - ha dichiarato non fondate le questioni di legittimita' costituzionale degli articoli 464-bis, comma 2, e 521, comma 1 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli articoli 3 e 24, secondo comma della Costituzione, nella parte in cui tali disposizioni «non prevedono la possibilita' di disporre la sospensione del procedimento con messa alla prova ove, in esito al giudizio, il fatto di reato venga, su sollecitazione del medesimo imputato, diversamente qualificato dal giudice cosi' da rientrare in uno di quelli contemplati dal primo comma dell'art. 168-bis del codice penale».