IL TRIBUNALE DI TERAMO 
 
    In composizione monocratica, nella  persona  del  giudice  Franco
Tetto: 
        nel procedimento penale n. 2106/17 r.g.  a  carico  di  S.M.,
difeso dall'avv. Antonio Di Gaspare del foro di Teramo; 
        all'esito dell'udienza dibattimentale del 3  luglio  2019  ha
pronunciato la seguente ordinanza: 
    1. A seguito di udienza  preliminare,  S.M.  e'  stato  tratto  a
giudizio  per  rispondere  del  delitto  di  atti  persecutori  (art.
612-bis, comma  2,  del  codice  penale)  consumato  in  danno  della
cittadina cinese L.L., con la quale aveva intrattenuto una  relazione
sentimentale. 
    Al S. si contesta in punto di fatto di aver  tenuto  -  nell'arco
temporale dal 19 febbraio 2017 al  1°  giugno  2017,  successivamente
all'interruzione della relazione con la L. e ad un'aggressione fisica
posta in essere il 19 febbraio 2017 ai danni della stessa - reiterati
comportamenti intimidatori e molesti, consistiti: 
        nell'inviare all'ex compagna, a partire dal 21 febbraio  2017
«insistenti e pertanto molesti sms, talvolta dal contenuto ingiurioso
ed intimidatorio»; 
        nel contattare telefonicamente il 26 maggio  2017  il  centro
benessere ove lei lavorava, fingendosi un carabiniere e chiedendo  ad
altra dipendente conferma del fatto che L.L., asseritamente ricercata
dalle forze dell'ordine, si trovava li'; 
        il 29 maggio 2017 si presentava  presso  il  predetto  centro
esortando L.L. a ritornare insieme a lui e minacciandola che, in caso
contrario, l'avrebbe denunciata e avrebbe fatto chiudere  l'attivita'
ove stava lavorando; 
        il 31 maggio 2017 si presentava nuovamente presso il posto di
lavoro di L.L. reiterando le medesime richieste e minacce; 
        il 1° giugno 2017 si presentava ancora una  volta  presso  il
luogo anzidetto, sia la mattina, quando non vi trovava L.L., sia  nel
tardo  pomeriggio,  quando  la  stessa,  pur  essendo  presente,  non
accettava di  incontrarlo  (in  tali  termini  testuali  il  capo  di
imputazione), cosi' da ingenerare nella persona offesa un  perdurante
e grave stato di ansia e di paura, un fondato timore per  la  propria
incolumita', costringendola inoltre ad alterare le proprie  abitudini
di vita. 
    All'udienza  del  7  febbraio  2018,  dopo  la  dichiarazione  di
apertura del dibattimento,  sono  stati  ammessi  i  mezzi  di  prova
indicati dalle parti. 
    L'istruzione dibattimentale e' iniziata alla  successiva  udienza
del 9 maggio 2018 con l'acquisizione di documentazione e  l'esame  di
alcuni testi; e' proseguita alle udienze del 20 giugno 2018,  del  27
settembre 2018 e del 31 ottobre 2018 con l'esame della persona offesa
(costituita parte civile e  assistita  da  un  interprete  di  lingua
cinese) e di altri testimoni. 
    All'udienza del 20 febbraio 2019, prima della discussione  finale
e della chiusura del dibattimento, questo giudice  ha  instaurato  il
contraddittorio delle parti in ordine ad un'eventuale  qualificazione
della condotta  addebitata  all'imputato  in  termini  giuridicamente
diversi e meno gravi (art. 660 del codice penale) rispetto  a  quelli
(art. 612-bis del codice penale) contestati nel decreto di  rinvio  a
giudizio. 
    In  relazione  a  tale  iniziativa  ufficiosa,  ispirata  ad  una
interpretazione convenzionalmente orientata dell'art.  521,  comma  1
del codice di procedura penale, il pubblico ministero e la difesa  di
parte civile nulla hanno osservato, mentre l'imputato ha  chiesto  un
termine a difesa anche al fine di valutare un'eventuale richiesta  di
definizione del procedimento mediante oblazione, ai  sensi  dell'art.
162-bis del codice penale, sul presupposto, appunto, della  condivisa
riconducibilita'   giuridica   della   condotta   alla    fattispecie
contravvenzionale di cui all'art. 660 del codice penale,  punita  con
pena alternativa. 
    In accoglimento della richiesta  difensiva,  il  dibattimento  e'
stato differito all'udienza del  20  marzo  2019,  poi  rinviata  per
esigenze dell'ufficio. 
    All'udienza del 12 giugno 2019 l'imputato ha  presentato  formale
istanza di oblazione, rispetto alla quale il pubblico ministero nulla
ha eccepito, mentre il difensore della parte civile ne ha chiesto  il
rigetto. Ai fini di  una  ponderata  valutazione  dell'ammissibilita'
dell'istanza, formulata dall'imputato, per la prima volta,  oltre  il
termine perentorio  previsto  dall'art.  162-bis  del  codice  penale
(«Nelle contravvenzioni per le quali  la  legge  stabilisce  la  pena
alternativa  dell'arresto  o  dell'ammenda,  il  contravventore  puo'
essere ammesso a pagare, prima dell'apertura del dibattimento, ovvero
prima del decreto di condanna, una somma  corrispondente  alla  meta'
del massimo dell'ammenda stabilita dalla legge per la contravvenzione
commessa, oltre le spese  del  procedimento  ...»)  (1)  ,  e'  stata
fissata  l'udienza  del  24  giugno  2019,  differita,  per  esigenze
dell'ufficio, all'odierna udienza. 
    2. Questo giudice ritiene che la decisione (preliminare  rispetto
ad ogni valutazione relativa alla ricorrenza, nel caso di specie, dei
presupposti «sostanziali»  richiesti  dall'art.  162-bis  del  codice
penale)  della   richiesta   personalmente   avanzata   dall'imputato
intercetti la pregiudiziale risoluzione della questione - rilevante e
non  manifestamente  infondata  -  di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 141, comma  4-bis,  disp.  att.  del  codice  di  procedura
penale, aggiunto dall'art. 53, comma 1, lettera  c)  della  legge  16
dicembre 1999, n. 479 («Modifiche alle disposizioni sul  procedimento
davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al
codice  di  procedura  penale.   Modifiche   al   codice   penale   e
all'ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia  di  contenzioso
civile pendente, di indennita' spettanti al  giudice  di  pace  e  di
esercizio della professione forense»), in relazione all'art. 162-bis,
comma 1 del codice penale, nei  termini  e  per  le  ragioni  che  di
seguito si vanno ad esplicitare. 
    2.1. In punto di rilevanza della questione, ad integrazione delle
ragioni  in  fatto  e  giuridiche  sottese   all'ordinanza   adottata
all'udienza del 20 febbraio 2019, va ribadito che, nella  fattispecie
per cui  e'  processo,  la  prospettiva  concreta  di  una  eventuale
emendatio iuris dell'ipotesi accusatoria trova  ragionevole  aggancio
di plausibilita' nel complesso  degli  elementi  probatori  acquisiti
all'esito dell'espletata istruzione dibattimentale. 
    Per  quel  che  qui  rileva,  e'  sufficiente  osservare  che  le
dichiarazioni rese dalla  persona  offesa  L.L.,  pur  risultate  nel
complesso intrinsecamente attendibili (2) , hanno lasciato  irrisolto
un   ragionevole   dubbio   sulla   riconducibilita'   ai   reiterati
comportamenti oggettivamente molesti posti in essere dal S. di almeno
uno degli eventi previsti, in  via  alternativa,  per  l'integrazione
della fattispecie delittuosa contestata dall'accusa. 
    In  tale  prospettiva,  risulta  pertinente  il  richiamo   delle
coordinate interpretative tracciate dalla Suprema corte e dal giudice
delle leggi (cfr.  Corte  costituzionale  11  luglio  2014,  n.  172)
finalizzate  ad  offrire,  in  una   prospettiva   costituzionalmente
orientata (art. 25  della  Costituzione)  ai  giudici  di  merito  un
criterio  di  selezione  delle  condotte  connotate  in  concreto  da
potenzialita' lesive del bene giuridico  tutelato  dall'art.  612-bis
del codice penale. 
    In particolare, la Corte costituzionale  ha  evidenziato  che  il
legislatore con l'art. 7 del decreto-legge 23 febbraio  2009,  n.  11
(«Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla
violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori»), convertito,
con modificazioni, dall'art. 1, comma 1 della legge 23  aprile  2009,
n. 38 - volendo colmare un vuoto  di  tutela  verso  i  comportamenti
persecutori, assillanti e invasivi della vita altrui - ha  introdotto
nel codice penale l'art. 612-bis, il quale prevede un'autonoma e piu'
grave fattispecie di reato, in linea con quanto previsto da  numerosi
ordinamenti stranieri. Con lo speciale reato di cui all'art.  612-bis
del codice penale,  il  legislatore  ha  ulteriormente  connotato  le
condotte di minaccia e molestia,  richiedendo  che  le  stesse  siano
realizzate in modo reiterato e idoneo a cagionare  almeno  uno  degli
eventi indicati nel testo normativo  (stato  di  ansia  o  di  paura,
timore per l'incolumita' e cambiamento delle abitudini di vita). Tale
ulteriore connotazione e' volta ad individuare specifici fenomeni  di
molestia  assillante  che  si  caratterizzano  per  un  atteggiamento
predatorio nei confronti della vittima,  bene  espresso  dal  termine
inglese  stalking,  con  cui  viene  solitamente   descritto   questo
comportamento criminale. Le peculiarita', che  contraddistinguono  la
minaccia e la  molestia  in  questi  casi,  espongono  la  vittima  a
conseguenze nella vita emotiva (stato di  ansia  e  di  paura  ovvero
timore per l'incolumita') e pratica (cambiamento delle  abitudini  di
vita), che rappresentano eventi individuati dal  legislatore  proprio
al  fine  di  meglio  circoscrivere  la  nuova  area   di   illecito,
caratterizzata da un  aggravato  disvalore  rispetto  alle  generiche
minacce e molestie e che,  pertanto,  giustificano  una  piu'  severa
reazione penale. Inoltre, occorre tenere conto del fatto  che  si  e'
ormai consolidato un «diritto vivente» che qualifica  il  delitto  di
cui all'art. 612-bis  del  codice  penale,  come  reato  abituale  di
evento, per la cui sussistenza occorre una condotta reiterata, idonea
a causare nella vittima una delle conseguenze descritte e,  sotto  il
profilo dell'elemento soggettivo, richiede il dolo generico, il quale
e' integrato dalla  volonta'  di  porre  in  essere  le  condotte  di
minaccia  e  molestia  nella  consapevolezza  della  idoneita'  delle
medesime a produrre almeno uno  degli  eventi  previsti  dalla  norma
incriminatrice (cfr. Cassazione n. 20993/12 e n. 7544/12). 
    Il   concetto   di   «reiterazione»,   utilizzato   nella   norma
incriminatrice, chiarisce in modo preciso che sono necessarie  almeno
due  condotte  di  minacce  o  molestia.  Cio',  tuttavia,   non   e'
sufficiente, in quanto le  medesime  devono  anche  essere  idonee  a
cagionare uno dei tre eventi alternativamente  previsti  dalla  norma
incriminatrice. Una tale valutazione di idoneita' non puo' che essere
condotta  in  concreto  dal  giudice  esaminando  il   singolo   caso
sottoposto al suo giudizio e tenendo conto che, come ha ripetutamente
sottolineato la giurisprudenza di legittimita', non e' sufficiente il
semplice verificarsi di uno degli eventi previsti dalla norma penale,
ne'  basta  l'astratta  idoneita'  della   condotta   a   cagionarlo,
occorrendo invece dimostrare il nesso causale tra la  condotta  posta
in essere dall'agente e i turbamenti derivati alla vita privata della
vittima (cfr. fra le tante: Cassazione n.  46331/13  e  n.  6417/10).
«Quanto al "perdurante e grave stato  di  ansia  e  di  paura"  e  al
"fondato  timore  per  l'incolumita'",  trattandosi  di  eventi   che
riguardano la  sfera  emotiva  e  psicologica,  essi  debbono  essere
accertati attraverso  un'accurata  osservazione  di  segni  e  indizi
comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa
e quella conseguente alle  condotte  dell'agente,  che  denotino  una
apprezzabile  destabilizzazione  della  serenita'  e  dell'equilibrio
psicologico della vittima ... L'aggettivazione, inoltre,  in  termini
di "grave e perdurante" stato di ansia o  di  paura  e  di  "fondato"
timore per l'incolumita', vale a circoscrivere  ulteriormente  l'area
dell'incriminazione,  in  modo  che  siano   doverosamente   ritenute
irrilevanti ansie di scarso momento, sia in ordine alla  loro  durata
sia in ordine alla  loro  incidenza  sul  soggetto  passivo,  nonche'
timori immaginari o del tutto fantasiosi della vittima. A tale ultimo
riguardo, deve rammentarsi  come  spetti  al  giudice  ricostruire  e
circoscrivere l'area di tipicita' della condotta penalmente rilevante
sulla base dei consueti criteri ermeneutici, in particolare alla luce
del principio di offensivita' (v. Corte  costituzionale  n.  139  del
2014 e n. 62 del 1986) ...». 
    Con particolare riferimento alla prova dell'evento del delitto di
atti persecutori, puo'  ritenersi  ormai  consolidato  l'orientamento
della  Suprema  corte  secondo  cui  l'accertamento  di  un  grave  e
perdurante  stato  di  ansia  o  di  paura  -  pur  non   richiedendo
necessariamente l'espletamento di  una  perizia  medica  (3)  -  deve
essere  ancorato  ad  elementi   sintomatici   di   tale   turbamento
psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della vittima  del  reato,
dai suoi comportamenti conseguenti  alla  condotta  posta  in  essere
dall'agente ed anche  da  quest'ultima,  considerando  tanto  la  sua
astratta idoneita' a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto
in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo  in  cui
e' stata consumata (4) . Da cio'  consegue  che  al  giudice  non  e'
consentita una valutazione di astratta idoneita' della  condotta  (di
minaccia o molestia) a menomare la liberta' morale della vittima,  ma
e' necessario in  concreto  l'accertamento  di  quale  sia  stata  la
risposta del soggetto passivo  all'aggressione  portata  dall'agente.
Poiche' almeno due dei tre  eventi  tipici  (il  fondato  timore  per
l'incolumita' e il perdurante stato di ansia e di paura)  afferiscono
alla   sfera   interna,   intima   e   psicologica   della    vittima
(manifestandosi invece all'esterno il mutamento  delle  abitudini  di
vita),  e'  evidente  come  l'indagine  devoluta   al   giudice   sia
particolarmente delicata, poiche' rischia di fatto di essere affidata
alle sole affermazioni del soggetto  passivo  e  alle  particolari  e
mutevoli  sfaccettature  della  sua   sensibilita'   personale,   pur
rilevanti quando conosciute dall'imputato e da  questi  valutate  per
portare a compimento il proprio intento persecutorio. 
    Alla luce dei sopra richiamati principi  ermeneutici,  in  questa
sede e' sufficiente  evidenziare  che  le  risultanze  dell'espletata
istruttoria dibattimentale  depongono  per  una  ricostruzione  della
vicenda in termini  fattuali  e  giuridici  piu'  riduttivi  rispetto
all'ipotesi accusatoria. In particolare, non e' emersa la sussistenza
in capo alla persona offesa di un grave stato d'ansia o di  effettivo
timore per la propria incolumita', ne' un  cambiamento  significativo
delle proprie abitudini di  vita,  eziologicamente  ricollegabili  ai
comportamenti posti in essere dal S. 
    In tal senso, rilevanza decisiva rivestono le dichiarazioni  rese
dalla stessa L., alla cui  stregua  puo'  ritenersi  che  i  predetti
comportamenti - valutati nella loro reale e intrinseca  gravita',  in
relazione alle concrete modalita' di manifestazione (sms  telefonici,
accessi non graditi presso il luogo di lavoro della persona offesa) -
non abbiano travalicato i limiti di meri  atteggiamenti  molesti,  il
piu'  delle  volte  di  carattere  ingiurioso  e  non  esplicitamente
intimidatori, quale sorta di degenerazione illecita di un'incapacita'
dell'imputato di avere un confronto  dialettico  e  civile  con  l'ex
compagna dopo la definitiva cessazione (nel febbraio 2017) della loro
relazione  sentimentale.  In  tale  prospettiva,   il   comportamento
«ambiguo»  tenuto  dalla  persona  offesa   dopo   la   presentazione
dell'unica   denuncia-querela,   sostanziatosi    nella    volontaria
accettazione  di  incontri  con  l'imputato  mentre  lo  stesso   era
sottoposto alla misura cautelare di cui all'art. 282-ter  del  codice
di procedura penale, appare dato fattuale alquanto incompatibile, sul
piano logico, con la sussistenza in capo alla L.  di  una  condizione
psicologica di serio timore per la propria incolumita' o di effettivo
condizionamento delle proprie abitudini di vita personale e sociale. 
    Da qui, l'astratta idoneita' delle condotte poste in  essere  dal
S. ad integrare i  (piu'  riduttivi)  profili  di  illiceita'  penale
sanzionati  dall'art.  660  del   codice   penale,   in   linea   con
l'orientamento  della  Suprema  corte  secondo  cui  ai  fini   della
sussistenza del reato di molestie e' necessario che il  comportamento
sia connotato da «petulanza» - ossia da quel modo di agire pressante,
ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il
modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella
sfera della quiete e della liberta' delle  persone  -  «o  per  altro
biasimevole motivo», ovvero qualsiasi altra motivazione  che  sia  da
considerare riprovevole per se' stessa o in  relazione  alla  persona
molestata (5) . 
    Non  puo',  invero,  ragionevolmente   dubitarsi   dell'oggettiva
idoneita' dei reiterati comportamenti ingiuriosi e  assillanti  posti
in essere dall'imputato - in luogo aperto al pubblico  e  soprattutto
per telefono - ad arrecare alla persona offesa molestia  e  disturbo,
ponendola in situazioni  di  disagio  psicologico  e  alterandone  le
normali  condizioni  di  tranquillita'.  Al  riguardo,  mette   conto
evidenziare che l'attendibilita' delle  dichiarazioni  dibattimentali
rese dalla L. risulta riscontrata dal tenore dei numerosi sms inviati
dal S.  (a  riprova  dell'atteggiamento  ingiurioso  e  di  arrogante
invadenza del medesimo), oggettivamente petulanti e che hanno  inciso
sgradevolmente nella sfera privata della persona offesa, la quale, di
conseguenza, e' stata condizionata nella possibilita' di  vivere  una
quotidianita' serena sia nei  rapporti  con  terze  persone,  sia  in
ambito lavorativo. 
    2.2. Come gia' accennato in premessa, nella  prospettiva,  emersa
soltanto   all'esito   dell'istruttoria   dibattimentale,   di    una
«correzione»  della  mera  qualificazione   giuridica   del   «fatto»
addebitato  all'imputato  (cosi'   come   descritto   nel   capo   di
imputazione) (6) ed in mancanza di  una  formale  iniziativa  in  tal
senso da parte del pubblico ministero (7) , questo giudice ha  inteso
garantire  -  prima  della  deliberazione   della   sentenza   -   il
contraddittorio argomentativo  (ed  eventualmente  probatorio)  della
difesa sul punto, pur non ignorando i profili di criticita' operativa
connessi ad una tale opzione processuale,  comunque  imposta  da  una
interpretazione  convenzionalmente  e  costituzionalmente   orientata
dell'art. 521, comma 1, del codice di procedura penale (8) . 
    Al  riguardo,   possono   ritenersi   ormai   consolidati   nella
giurisprudenza sovranazionale i principi ricavabili dall'art. 6, §  1
e 3 lettere a) e b) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e
delle  liberta'   fondamentali,   cosi'   come   enucleati   in   via
interpretativa dalla Corte di Strasburgo (9) . 
    In estrema sintesi, e' noto che  a  fondamento  di  tali  approdi
ermeneutici  -  i  quali  rivestono  il  rango  di  fonti  interposte
integratrici del precetto di cui  all'art.  117,  primo  comma  della
Costituzione, che il giudice  italiano  e'  tenuto  ad  applicare,  a
condizione  della   loro   conformita'   alla   Costituzione   e   di
compatibilita'  con  la  tutela  degli  interessi  costituzionalmente
protetti (10) - rilevanza centrale  ed  assorbente  viene  attribuita
alla garanzia «infomativa» dovuta al soggetto nei cui  confronti  sia
stata formulata un'accusa penale. In particolare, e'  stato  chiarito
che l'art. 6, § 3, lettera a), CEDU riconosce all'imputato il diritto
ad essere informato, in termini  dettagliati,  non  solo  dei  «fatti
materiali» addebitatigli, ma  anche  della  qualificazione  giuridica
degli stessi e di ogni possibile loro  modificazione  nel  corso  del
giudizio. 
    La reale portata  applicativa  di  tale  principio  va,  infatti,
valutata in relazione al piu' generale diritto ad un processo «equo»,
garantito dal § 1 dell'art. 6 della Convenzione, pur  non  prevedendo
la normativa convenzionale, in termini espliciti e  tassativi,  forme
particolari con le quali la  predetta  garanzia  «informativa»  debba
essere in concreto assicurata all'accusato. 
    Cio' posto, puo' ritenersi altrettanto  pacifica  l'esistenza  di
una stretta correlazione tra le lettere a) e b) dell'art. 6, § 3, nel
senso che il diritto di essere informati della natura  e  dei  motivi
dell'accusa deve  intendersi  funzionale  a  consentire  al  soggetto
accusato di disporre di un tempo sufficiente per preparare la propria
difesa, il cui efficace esercizio non puo' non essere riferito  anche
ad una eventuale «modifica» della definizione  giuridica  dell'accusa
complessivamente  considerata  (non   limitata,   cioe',   alla   sua
componente «fattuale»), e la cui tutela risulta, quindi, strettamente
ancorata ad un inderogabile diritto  dell'imputato  ad  ottenere,  in
tempo utile, una dettagliata informazione sul punto. 
    Ne deriva che il mutamento del nomen iuris, che non sia preceduto
da uno spazio di contraddittorio tra le  parti  sugli  effetti  della
riqualificazione e da condizioni favorevoli a  predisporre  strumenti
difensivi adeguati a confutare la nuova  veste  dell'accusa,  risulta
incompatibile  con  le  garanzie  del  processo   equo   cosi'   come
interpretate  dalla  Corte   EDU,   in   un'ottica   di   progressivo
innalzamento dello standard di protezione dei  diritti  dell'accusato
di fronte al potere giudiziale di inquadrare  diversamente  il  fatto
(11) . 
    A tale assestamento  del  diritto  giurisprudenziale  di  matrice
comunitaria, come e' noto, hanno  fatto  da  contrattare  gli  sforzi
interpretativi dell'organo di nomofilachia  del  nostro  ordinamento,
finalizzati a ritagliare spazi per un'opzione  ermeneutica  dell'art.
521, comma 1 del codice di procedura penale  conforme  ai  dicta  del
giudice europeo e al principio tutelato dall'art.  111,  terzo  comma
della Costituzione. Si e', pertanto, affermato che  la  garanzia  del
contraddittorio deve essere assicurata all'imputato anche  in  ordine
ad un'eventuale diversa definizione giuridica del fatto  operata  dal
giudice  ex  officio.  In  particolare,   a   fronte   della   chiara
formulazione letterale dell'art. 521, comma 1 del codice di procedura
penale - ed incontestabile il potere del  giudice  di  attribuire  in
sentenza  al  fatto,  emergente  dalle  risultanze  processuali,  una
qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione
- anche di recente e' stato ribadito che tale potere non puo'  essere
esercitato «a sorpresa»  ma  solo  a  condizione  di  una  preventiva
promozione, ad opera del giudice e sin  dalla  fase  di  merito,  del
contraddittorio fra le parti sulla relativa questione, atteso che  la
difesa  ben  puo'  diversamente  atteggiarsi  (quanto  alle   opzioni
strategiche)  e  modularsi  (sul  piano  tattico)  in  rapporto  alla
differente qualificazione giuridica  della  condotta,  rispetto  alla
quale le emergenze processuali assumono,  a  loro  volta,  diversa  e
nuova  rilevanza,  e  cio'  anche  nel  caso  di  nuova   e   diversa
qualificazione con ricadute  sanzionatorie  piu'  favorevoli  per  il
giudicabile (cfr.  Cassazione  19  gennaio  2018,  n.  2340,  nonche'
Cassazione 30 maggio 2016, n. 22731, tra l'altro in  una  fattispecie
concreta sovrapponibile a  quella  per  cui  e'  processo;  v.  anche
Cassazione n. 18590/11; Cassazione n.  20500/10);  in  linea  con  la
citata giurisprudenza della Corte EDU per la quale e' circostanza del
tutto ininfluente che all'imputato sia irrogata  una  pena  inferiore
quale  conseguenza  della  derubricazione  del  fatto  addebitatogli,
assumendo, per contro, rilevanza decisiva l'eventuale vulnus arrecato
alla difesa dalla riqualificazione giuridica in se',  effettuata  dal
giudice in assenza del contributo dialettico delle parti (12) . 
    2.3.  Tuttavia,  a  fronte  della  persistente  assenza   di   un
intervento organico in materia da parte  del  legislatore,  l'operata
estensione in via interpretativa del regime di  tutela  «sostanziale»
del diritto al contraddittorio su ogni eventuale «modifica» - sia  in
fatto che del titolo giuridico - dell'imputazione ha  inevitabilmente
intercettato e ampliato i delicati profili di criticita'  applicativa
afferenti alla tematica del rapporto tra tali vicende modificative  e
l'accessibilita' ai riti alternativi; problematiche applicative  che,
come era prevedibile, hanno  reso  necessari  plurimi  e  disorganici
interventi  di  carattere  additivo  del  giudice  delle  leggi   che
(ancorche' riferiti alle sole modifiche «fattuali» disciplinate dagli
articoli  516  e  517  del  codice   di   procedura   penale)   hanno
(ri)disegnato, nel corso degli anni e in  un'ottica  progressivamente
evolutiva  di  tutela  costituzionalmente  avanzata  del  diritto  di
difesa, i casi e i margini di esercizio da parte dell'imputato  della
facolta' di scelta di riti alternativi al dibattimento, e cio'  sulla
base di itinerari argomentativi fin troppo  noti  e  che  appare  non
superfluo richiamare negli stretti limiti  di  rilevanza  concretache
gli stessi, a parere di questo  giudice,  assumono  sul  piano  della
ritenuta non  manifesta  infondatezza  della  questione  oggetto  del
presente incidente di costituzionalita'. In tale prospettiva,  va  in
primo luogo evidenziato che risale a epoca immediatamente  successiva
all'introduzione   del   vigente   codice   di   procedura    penale,
l'affermazione della Corte costituzionale secondo cui  «la  richiesta
di  riti  alternativi  costituisce  una  modalita',   tra   le   piu'
qualificanti, di esercizio del diritto di  difesa  (v.  ex  plurimis,
sentenze n. 76 del 1993, n. 497 del 1995, n. 70 del 1996, n. 148 e n.
219 del 2004). 
    Coerentemente a tale affermazione di principio, e' stata in  piu'
occasioni dichiarata l'illegittimita' costituzionale di  disposizioni
del codice di rito nella parte in cui non  consentivano  all'imputato
di essere rimesso  in  termini  al  fine  di  esercitare  l'eventuale
opzione per meccanismi di definizione alternativa  o  anticipata  del
procedimento allorche', in  esito  al  giudizio  celebrato  con  rito
ordinario, gli  venisse  contestato  un  fatto  diverso  o  un  reato
concorrente che risultava gia' dagli  atti  di  indagine  al  momento
dell'esercizio  dell'azione  penale,  e  che  pertanto  il   pubblico
ministero ben avrebbe potuto contestargli gia' in quel  momento,  si'
da porlo in condizione di esercitare il proprio diritto di difesa  in
merito alla scelta del rito (v. in particolare, sentenza n.  265  del
1994, in relazione al patteggiamento, e sentenza n. 333 del 2009,  in
relazione al rito abbreviato). 
    Per un'esaustiva ricostruzione diacronica delle «tappe»  salienti
di tale progressivo percorso di riallineamento  costituzionale  della
disciplina  codicistica  -  tracciate  dai  plurimi   interventi   di
carattere «additivo», resisi necessari dal  perdurante  silenzio  del
legislatore in materia - e' sufficiente  rimandare  alla  motivazione
della recente sentenza n. 82 del 2019. 
    Per quel che qui rileva, mette  conto  evidenziare  il  passaggio
argomentativo  della  citata  pronuncia  nella  parte  in  cui  viene
confermato il principio innovativo (gia' affermato  nelle  precedenti
sentenze n. 237 del 2012, n. 273 del 2014, n. 206 del 2017 e  n.  141
del 2018) secondo cui quando l'accusa originaria  e'  modificata  nei
suoi  aspetti  essenziali,  «non  possono   non   essere   restituiti
all'imputato termini e condizioni per esprimere le  proprie  opzioni.
La  modificazione  dell'imputazione,  oltre  ad  alterare   in   modo
significativo la fisionomia fattuale del tema  d'accusa,  puo'  avere
riflessi  di  rilievo  sull'entita'  della  pena  irrogabile  e,   di
conseguenza,  sull'incidenza   quantitativa   dell'effetto   premiale
connesso al rito speciale ...». 
    Cio'  a  prescindere   dalle   modalita'   -   «fisiologiche»   o
«patologiche»  -  di  emersione  del  dato  probatorio  che  sorregge
l'aggiornamento dibattimentale  dell'accusa  da  parte  del  pubblico
ministero, con consequenziale  superamento  definitivo  del  criterio
fondato su un onere di «prevedibilita'», da parte  dell'imputato,  di
una tale evenienza processuale, sull'assorbente rilievo argomentativo
che «l'accesso al rito alternativo  dopo  l'inizio  del  dibattimento
rimane comunque idoneo a produrre un'economia processuale,  anche  se
attenuata, e che in ogni caso le ragioni della deflazione processuale
debbono recedere di fronte ai principi posti dagli articoli 3  e  24,
secondo  comma   della   Costituzione,   perche'   l'esigenza   della
«corrispettivita'» fra riduzione di pena e deflazione processuale non
puo'  prendere  il  sopravvento  sul  principio  di  eguaglianza  ne'
tantomeno sul  diritto  di  difesa»  (in  tali  termini  testuali  la
sentenza n. 141 del 2018). 
    In altri termini, secondo il giudice delle  leggi  «non  si  puo'
pretendere che l'imputato valuti la convenienza di un  rito  speciale
tenendo conto anche  dell'eventualita'  che,  a  seguito  dei  futuri
sviluppi dell'istruzione dibattimentale, l'accusa a lui mossa subisca
una trasformazione, la cui portata resta ancora del tutto imprecisata
al momento della scadenza del termine utile per la formulazione della
richiesta» (sentenza n. 273 del 2014). In una prospettiva ermeneutica
incentrata essenzialmente sulla  «non  addebitabilita'»  all'imputato
dello spirare del  termine  «fisiologico»  per  la  scelta  dei  riti
alternativi, risulta evidente che una  tale  opzione  «non  puo'  non
presupporre un  completamento  della  imputazione  elevata  nei  suoi
confronti.   Solo   attraverso   una    esauriente    e    tempestiva
cristallizzazione del quadro di accusa e' infatti possibile assegnare
un termine per l'esercizio di facolta'  processuali  che  -  come  le
scelte sui riti alternativi - con quel quadro devono  necessariamente
misurarsi, traendo esse naturale  alimento  proprio  dalla  natura  e
specificazione delle fattispecie incriminatrici e  dalle  correlative
basi fattuali ...»; fino ad arrivare alla enunciazione di quello  che
puo'  ritenersi  l'approdo  quasi  definitivo  della   giurisprudenza
costituzionale sul tema (in quanto connotato da una pregnante valenza
ermeneutica  di  principio  generale  e  nel  contempo  quale  monito
indiretto al «reticente» legislatore), il cui  fulcro  argomentativo,
rilevante  nell'economia  motivazionale  del  presente  incidente  di
costituzionalita', risulta esplicitato nei seguenti termini testuali:
«... Se, dunque, la possibilita' di richiedere i riti alternativi  si
salda a fil doppio al diritto di difesa - in particolare, al  diritto
di scegliere il modello processuale piu' congeniale all'esercizio  di
quel diritto  -  e  se  e'  la  regiudicanda,  nelle  sue  dimensioni
«cristallizzate», a costituire la base su cui  operare  tali  scelte,
non puo' che desumersi la incoerenza con quel  diritto  di  qualsiasi
preclusione che ne limiti l'esercizio concreto, tutte le volte in cui
il sistema ammetta una mutatio libelli in  sede  dibattimentale  ...»
(sentenza n. 82 del 2019). 
    Del  resto,  tale  (ri)assetto,  in   chiave   costituzionalmente
orientata, del quadro normativo di riferimento, risulta in linea  con
il sopra richiamato indirizzo consolidato espresso  dalla  Corte  EDU
riguardo alle condizioni necessarie  e  sufficienti  per  una  tutela
effettiva  del  diritto  di  difesa  in  rapporto   all'aggiornamento
dell'accusa,  in  relazione  al  quale  scorciatoie  ermeneutiche  di
carattere  sostanzialmente  presuntivo,  basate  su  un  giudizio  di
prevedibilita' della mutatio libelli da parte  dell'imputato,  devono
ritenersi non compatibili con quanto previsto dall'art. 6, commi 1  e
3, lettere a) e b) della Convenzione EDU. 
    3. In tale prospettiva, con  specifico  riferimento  all'istituto
dell'oblazione (e quale unica eccezione all'atteggiamento di assoluta
e persistente ritrosia  verso  interventi  di  riforma  dell'impianto
codicistico in materia), mette conto evidenziare che  il  legislatore
nazionale - nel recepire, a  livello  normativo,  gli  effetti  della
sentenza n. 530 del 1995 del giudice delle leggi (dichiarativa  della
illegittimita' costituzionale degli articoli 516 e 517 del codice  di
procedura penale nella parte  in  cui  non  prevedevano  la  facolta'
dell'imputato di  proporre  domanda  di  oblazione,  ai  sensi  degli
articoli 162 e 162-bis del  codice  penale,  relativamente  al  fatto
diverso e al reato  concorrente  contestato  in  dibattimento)  -  e'
intervenuto sull'art. 141 disp. att. del codice di procedura  penale,
aggiungendo, con l'art. 53 della legge 16 dicembre 1999, n.  479,  il
comma 4-bis,  il  quale,  nella  sua  attuale  formulazione,  prevede
testualmente che «In caso di modifica dell'originaria imputazione  in
altra per la quale sia ammissibile l'oblazione, l'imputato e' rimesso
in termini per chiedere la  medesima.  Il  giudice,  se  accoglie  la
domanda, fissa un termine  non  superiore  a  dieci  giorni,  per  il
pagamento della somma dovuta. Se il pagamento avviene nel termine  il
giudice dichiara con sentenza l'estinzione del reato». 
    Alla luce  del  chiaro  tenore  letterale  e  della  ratio  della
disposizione normativa in esame, puo' convenirsi con la piu'  attenta
dottrina che, proprio in  virtu'  di  quanto  statuito  dalla  citata
pronuncia del 1995 della Corte costituzionale, riconosce alla  stessa
un proprio spazio operativo ben piu' ampio rispetto  a  quello  della
disciplina  degli  altri  riti  alternativi  al   dibattimento,   con
particolare riferimento al giudizio abbreviato e  al  patteggiamento.
Ai fini  dell'applicazione  della  norma,  infatti,  non  rileva  che
l'aggiornamento dell'accusa dipenda da  un'evoluzione  fisiologica  e
prevedibile del quadro cognitivo oppure da  una  condotta  anomala  e
imprevedibile  del  pubblico  ministero.  Lo  scopo  deflattivo   del
dibattimento proprio dell'oblazione  e'  raggiunto  indipendentemente
dal momento in  cui  si  realizza  la  modifica  dell'accusa.  Quando
l'emendatio libelli avvenga in via anticipata, ossia prima ancora che
si   apra   l'istruzione    dibattimentale,    l'effetto    estintivo
dell'oblazione si  realizza  all'esito  di  una  sequenza  pienamente
alternativa a quella della fase dibattimentale; quando,  invece  essa
avvenga solo all'esito  dell'istruzione  dibattimentale,  l'oblazione
evita   il   dispendio   di   risorse   conseguente   al   necessario
riconoscimento dei diritti delle parti ex  art.  519  del  codice  di
procedura penale. 
    D'altra  parte,  tale  ricostruzione  risulta  coerente  con   il
principale effetto di carattere sostanziale  che  connota  l'istituto
dell'obiezione  (e  che  nel  contempo  lo  distingue   dagli   altri
procedimenti speciali) (13) , rappresentato  dalla  possibilita'  per
l'imputato di ottenere, attraverso il pagamento della somma stabilita
dal giudice, l'estinzione della rilevanza penale della condotta (art.
162, comma 2 del codice penale: «Il  pagamento  estingue  il  reato»;
art. 162-bis, comma 6 del codice penale: «Il  pagamento  delle  somme
indicate nella prima parte del presente articolo estingue il reato»),
dovendosi  rilevare,  di  conseguenza,  l'incidenza  significativa  e
«prevalente» che tale modalita' di esercizio del diritto  di  difesa,
di per se', e'  destinata  ad  assumere  rispetto  alle  esigenze  di
deflazione processuale. 
    Cio'  posto,  ritiene  questo  giudice  che   il   riconoscimento
esplicito, previsto dal comma 4-bis  dell'art.  141  disp.  att.  del
codice di procedura penale, della facolta' dell'imputato di  proporre
domanda  di  oblazione  -  nonostante  la  scadenza  del  termine  di
proponibilita' rappresentato dall'avvenuta dichiarazione di  apertura
del  dibattimento  -  nei   soli   casi   di   modifiche   «fattuali»
dell'originaria imputazione e non anche nelle  ipotesi  di  eventuale
modifica, su iniziativa del giudice, di un aspetto  fondamentale  del
thema decidendum, ovvero il tema della norma applicabile,  sconti  un
vizio di incompatibilita' con il  principio  dell'inviolabilita'  del
diritto di difesa costituzionalmente garantito in ogni stato e  grado
del procedimento (art. 24, secondo comma della Costituzione). 
    Il  legislatore,  invero,  non  sembra  aver  colto  la   valenza
ermeneutica potenzialmente «estensiva» del principio enunciato  nella
citata sentenza n. 530 del  1995  (definitivamente  consacrato  nelle
recenti pronunce sopra richiamate), ovvero l'oggettiva impossibilita'
per  l'imputato  di  chiedere  l'obiezione  prima  della   «modifica»
dell'imputazione,   avendo   la   Corte    costituzionale    reputato
irragionevole e non compatibile con la tutela del diritto  di  difesa
l'evanescente   criterio   dell'accettazione   del   rischio    della
«fluidita'» (fisiologica o patologica) dell'imputazione nel corso del
dibattimento. Argomenta(va) testualmente la  Corte:  «...  L'istituto
dell'obiezione si fonda sia sull'interesse dello  Stato  di  definire
con economia di tempo e di spese i procedimenti relativi ai reati  di
minore importanza, sia sull'interesse del contravventore  di  evitare
l'ulteriore corso del procedimento e la eventuale condanna, con tutte
le conseguenze di essa (cfr.  sentenza  n.  207  del  1974).  Effetto
tipico di tale forma di definizione anticipata del  procedimento  e',
infatti, la estinzione del reato, per cui appare del  tutto  evidente
come la domanda di ammissione all'oblazione esprima una modalita'  di
esercizio del diritto di difesa. Cio' posto, considerate la natura  e
la funzione dell'istituto in esame  sopra  indicate,  la  preclusione
dell'accesso al medesimo - e ai connessi benefici - nel caso  in  cui
il reato suscettibile di estinzione per oblazione costituisca oggetto
di contestazione nel corso dell'istruzione dibattimentale,  ai  sensi
dell'art. 517 del codice di procedura penale,  risulta  indubbiamente
lesiva  del  diritto  di   difesa,   nonche'   priva   di   razionale
giustificazione.  L'avvenuto   superamento   del   limite   temporale
(apertura del dibattimento)  previsto,  in  linea  generale,  per  la
proposizione della domanda di oblazione (e la cui ratio e' quella  di
evitare che l'imputato possa  vanificare  l'attivita'  processuale  a
seconda degli esiti del dibattimento) non e', infatti,  nel  caso  in
esame, riconducibile  a  libera  scelta  dell'imputato,  e  cioe'  ad
inerzia al  medesimo  addebitabile,  sol  che  si  consideri  che  la
facolta' in discussione non puo' che sorgere nel  momento  stesso  in
cui il reato e' oggetto di contestazione ...». 
    3.1. Cio' premesso, e' noto come a fronte della riduttiva portata
applicativa imposta dal tenore letterale del  comma  4-bis  dell'art.
141 disp. att. del codice di procedura penale - e  consapevole  delle
potenziali ricadute in termini di deficit di tutela  del  diritto  di
difesa dell'imputato nelle  ipotesi  (non  contemplate  dalla  norma)
relative al rapporto tra «modifica» nel corso del giudizio della mera
qualificazione giuridica del fatto originariamente  contestato  e  la
consequenziale possibilita' di accesso al procedimento  di  oblazione
-, la giurisprudenza di legittimita' abbia tracciato, nel corso degli
anni, «sentieri» ermeneutici alla ricerca affannosa di una soluzione,
ragionevole   e   costituzionalmente   conforme,    della    delicata
problematica. 
    In estrema sintesi, al di la' di un'unica pronuncia, tra  l'altro
intervenuta in epoca precedente alla  novella  del  1999  (e  rimasta
isolata  nel  panorama   giurisprudenziale   formatosi   negli   anni
successivi) (14) , la Suprema  corte  -  nel  comporre  un  contrasto
registratosi al suo interno sul tema  delle  modifiche  subite  dalla
imputazione al di fuori delle contestazioni del pubblico ministero ed
ai riverberi che da cio' scaturivano sul piano della possibilita'  di
attivare il  procedimento  per  oblazione  (e  di  quali  fossero  le
relative forme processuali) in rapporto alla  diversa  qualificazione
della regiudicanda - con la sentenza delle Sezioni unite n. 7645  del
28 febbraio 2006, Autolitano, afferma il  principio  secondo  cui  la
disposizione dell'art. 141 disp. att. del codice di procedura penale,
comma 4-bis non trova applicazione in assenza di una formale modifica
della contestazione da parte del pubblico ministero ed in presenza di
una diversa qualificazione giuridica del fatto  operato  dal  giudice
nella sentenza. 
    In particolare, nella citata  pronuncia  viene  ribadito  che  il
diritto dell'imputato a fruire della oblazione risulta tutelato  solo
nell'ipotesi in cui nel corso del dibattimento il pubblico  ministero
modifichi la contestazione e qualifichi il fatto  secondo  un'ipotesi
di reato che, a  differenza  di  quella  originariamente  addebitata,
consente l'applicazione della disciplina relativa alla oblazione. 
    Secondo il predetto principio, l'imputato, per essere ammesso  ad
estinguere un reato non originariamente contestato come oblabile  con
ratto di esercizio della azione penale,  deve  presentare,  in  forma
preventiva, l'istanza di oblazione, per  l'ipotesi  di  un  futuro  o
possibile mutamento del fatto. Sull'imputato grava, quindi, un  onere
di  attivazione,  con  presentazione  di  una  espressa  istanza   di
oblazione  tesa  a  sollecitare  una  diversa   e   piu'   favorevole
qualificazione giuridica  del  fatto,  posto  che,  in  mancanza,  la
dinamica del procedimento e l'esigenza del contraddittorio precludono
l'accesso al beneficio, ove alla modifica della imputazione  provveda
direttamente il  giudice  con  la  sentenza  di  condanna.  In  altri
termini, l'imputato, nell'esercizio del proprio  diritto  di  difesa,
non deve cristallizzare le proprie opzioni  sull'esclusiva  falsariga
della contestazione che gli viene formalmente mossa, ma deve altresi'
misurarsi con la possibilita' di attribuire al fatto un diverso nomen
iuris,v e contestualmente chiedere, in base  alla  «piu'  favorevole»
qualificazione  del  reato,  di  esercitare  il  proprio  diritto  di
estinguerlo attraverso  l'oblazione.  In  caso  contrario,  non  puo'
dolersi  dell'impossibilita'  di   beneficiare   del   beneficio   in
questione. 
    Cio'  posto,  sollecitate  a  dirimere  i  dubbi   interpretativi
registratisi in ordine all'apparente perentorieta' di  tali  principi
ermeneutici - ed in particolare a dare  una  risposta  definitiva  al
quesito se la restituzione nei termine per  proporre  la  domanda  di
oblazione trovi applicazione solo nel caso in cui la  modifica  della
imputazione avvenga ad opera  del  pubblico  ministero  ovvero  anche
nella ipotesi in cui sia  il  giudice  ad  attribuire  al  fatto  una
diversa  qualificazione  giuridica,   che   consenta   l'applicazione
dell'oblazione, prescindendo dalla preventiva richiesta dell'imputato
-, le Sezioni unite sono di nuovo  intervenute  con  la  sentenza  n.
32351 del 22 luglio 2014, T. 
    In sostanziale continuita'  argomentativa  con  quanto  affermato
dalla precedente sentenza del 2006, la Suprema corte  ha  ribadito  e
puntualizzato che «ove la qualificazione del fatto integri  un  reato
la cui pena edittale non consenta il procedimento per  oblazione,  e'
onere dell'imputato sindacare  la  correttezza  della  qualificazione
stessa, investendo il giudice di una richiesta specifica con la quale
formuli istanza  di  oblazione  in  riferimento  alla  qualificazione
giuridica del fatto che ritenga corretta; in modo tale da permettere,
all'esito del necessario contraddittorio, una  decisione  altrettanto
specifica sul punto, con gli evidenti e naturali riverberi in sede di
impugnazione. 
    Solo in presenza di un'effettiva domanda di oblazione e'  infatti
possibile soddisfare l'esigenza del  contraddittorio  e  il  rispetto
delle regole sancite dal procedimento scandito  dell'art.  141  disp.
att. del codice di procedura penale, con la conseguenza di permettere
al pubblico ministero di interloquire e, al tempo  stesso,  investire
formalmente il giudice della questione». 
    Quale argomento principale addotto a  sostegno  di  tale  epilogo
ermeneutico, viene evidenziato che a proposito dei rapporti (e  delle
possibili frizioni) che ineluttabilmente  vengono  a  stabilirsi  tra
contestazione e diritto  di  difesa  -  rappresentando  la  prima  il
fisiologico «oggetto» del secondo - non puo' non  sottolinearsi  come
le modalita' attraverso le quali puo' esprimersi  quel  diritto  sono
indubbiamente le piu' varie, e tra  queste  va  annoverata  anche  la
scelta dei riti alternativi, e,  per  quanto  qui  rileva,  anche  la
possibilita' di beneficiare del  procedimento  di  oblazione.  Ma  si
tratta di un diritto che, ferma restando la identificazione del fatto
storico che viene addebitato ... non puo' non formare oggetto di  una
disamina «critica,» proprio in vista della  correttezza  o  meno  del
nomen iuris a quel fatto  attribuito  dal  pubblico  ministero.  Alla
difesa come  diritto,  infatti,  deve  necessariamente  riconnettersi
anche - proprio sul versante dell'indispensabile contraddittorio  fra
le parti ed ai  fini  dei  petita  da  rivolgere  al  giudice  -  uno
specifico onere di interlocuzione su tutti i punti che  costituiscono
oggetto della devoluzione; e cio' al fine di scongiurare  l'insorgere
di effetti preclusivi che il sistema e' fisiologicamente  chiamato  a
predisporre a salvaguardia dello stesso ordo iudiciorum. 
    In una prospettiva siffatta, nella ipotesi in cui l'imputato -  a
fronte di «una contestazione in forma chiara e  precisa,  del  fatto,
delle circostanze aggravanti  e  di  quelle  che  possono  comportare
l'applicazione di misure di sicurezza, con l'indicazione dei relativi
articoli di legge» (art. 429 del codice di procedura penale, comma 1,
lettera c), il tutto corroborato  -  ad  ulteriore  specificazione  -
dalla «indicazione delle fonti di prova  e  dei  fatti  cui  esse  si
riferiscono» (lettera d della disposizione sopra richiamata) - ometta
di contestare la non pertinenza  del  nomen  iuris  alla  fattispecie
dedotta in rubrica, assumendo una posizione  di  nolo  contendere  su
tale qualificante  punto  della  futura  decisione,  nessun  tipo  di
doglianza potra' essere formulata  -  circa  le  preclusioni  che  ne
possono essere derivate per i riti alternativi - ove il  giudice,  in
sede di decisione, abbia ritenuto di dare a quel  fatto  una  diversa
qualificazione giuridica. Si tratta, semplicemente, di esercitare  il
proprio diritto ad una  qualificazione  giuridica  corretta,  con  le
conseguenze che da cio' possono derivare proprio  sul  terreno  della
oblabilita' del reato; un diritto che, come si e' detto,  rappresenta
al tempo stesso  un  onere  che,  se  non  adempiuto,  ben  puo'  far
insorgere  la  preclusione  temporale  connessa  alla  procedura   di
oblazione, quale  istituto  idealmente  teso  ad  evitare,  e  non  a
seguire, gli esiti del dibattimento ...». 
    Va aggiunto che a tale principio di diritto si e' sostanzialmente
uniformata la giurisprudenza successiva delle sezioni  semplici,  sia
pure sulla  base  di  ratio  decidendi  differenti,  calibrate  sulle
particolarita' delle  fattispecie  processuali  oggetto  di  giudizio
(cfr. fra le tante: Sezione II, 19 gennaio  2019,  n.  2211;  Sezione
III, 9 ottobre 2018, n. 50144; Sezione II, 30 maggio 2018, n.  41456;
Sezione III, 25 giugno 2018, n. 40677; Sezione I, 9 maggio  2018,  n.
51159; Sezione III, 23 marzo 2017, n. 37829; Sezione II, 21  febbraio
2017, n. 12416; Sezione III, 15 dicembre 2016, n. 5614; Sezione  III,
30 giugno 2016, n. 36378; Sezione III,  23  giugno  2016,  n.  40324;
Sezione III, 22 marzo 2016, n. 22246; Sezione I, 27 novembre 2015, n.
22731; Sezione VII, 13 novembre 2015, n. 2951; Sezione III, 7  maggio
2015, n. 42680; Sezione I, 15 aprile 2015, n. 23383; Sezione  III,  5
novembre 2014, n. 3380; Sezione I, 30 ottobre 2014, n. 53745). 
    3.2. Nel prendere atto dell'attuale portata applicativa dell'art.
141, comma 4-bis, disp. att. del codice di  procedura  penale,  cosi'
come  delineata  dalle  sopra  richiamate  coordinate  interpretative
(«diritto vivente») (15)  offerte  dall'organo  di  nomofilachia  del
nostro ordinamento anche  nella  sua  piu'  autorevole  composizione,
questo giudice ritiene che tale approdo ermeneutico non sia idoneo  a
«sanare»  -  in  termini  costituzionalmente  compatibili  (art.  24,
secondo comma della Costituzione) con l'inviolabilita' dell'esercizio
del  diritto   di   difesa   dell'imputato   -   l'aporia   emergente
dall'inequivocabile  tenore   letterale   (16)   della   disposizione
normativa in questione,  della  cui  concreta  applicabilita',  nella
fattispecie per cui e' processo, questo giudice risulta  investito  a
seguito della domanda di oblazione presentata dall'imputato,  per  la
prima  volta,  soltanto  all'esito  dell'istruzione   dibattimentale,
quindi oltre il termine di decadenza previsto dall'art.  162-bis  del
codice penale. 
    In tale prospettiva, risulta dirimente rilevare che  (al  di  la'
dell'apodittica e formale «presa  di  distanza»  operata  sul  punto)
un'analisi  in  controluce  delle  argomentazioni  sviluppate   dalle
Sezioni  unite  della  Suprema  corte  nella   citata   sentenza   n.
32351/2014, a sostegno del principio  di  diritto  affermato,  lascia
trasparire  una  sorta  di  «riabilitazione»  di   fatto,   per   via
ermeneutica,  del   criterio   della   «prevedibilita'»,   da   parte
dell'imputato,  di  un'eventuale  e   fisiologica   emendatio   iuris
dell'originaria contestazione nel corso del dibattimento (17)  ,  con
consequenziale configurabilita' a carico dello stesso imputato di  un
onere specifico di sollecitazione preventiva del contraddittorio  sul
punto e di formulazione di una tempestiva e «cautelativa» domanda  di
oblazione, quale assorbente presupposto processuale di ammissibilita'
o meno di accesso al predetto  meccanismo  di  estinzione  del  reato
contestato dall'accusa. 
    Ebbene, deve rilevarsi che la configurabilita' di tale  tipologia
di oneri processuali non solo non risulta prevista  da  alcuna  norma
specifica del codice di rito, ne' tanto meno  e'  ricavabile  da  una
lettura, per quanto evolutiva, dell'art. 141 disp. att. del codice di
procedura penale nella sua attuale formulazione, ma,  a  ben  vedere,
risulta lesiva del diritto di  difesa  poiche'  in  contrasto  con  i
principi affermati dalla sentenza n. 530  del  1995  e  ribaditi,  in
termini perentori  e  con  valenza  ermeneutica  generale,  anche  di
recente dalla Corte costituzionale (v. la gia' citata sentenza n.  82
del 2019, nella parte in  cui  evidenzia  che  «...  Se,  dunque,  la
possibilita' di richiedere i riti alternativi si salda a  fil  doppio
al diritto di difesa - in particolare, al  diritto  di  scegliere  il
modello processuale piu' congeniale all'esercizio di quel diritto - e
se e' la  regiudicanda,  nelle  sue  dimensioni  «cristallizzate»,  a
costituire (a base su cui operare tali scelte, non puo' che desumersi
la incoerenza con quel diritto di qualsiasi preclusione che ne limiti
l'esercizio concreto, tutte le volte in cui il  sistema  ammetta  una
mutatio libelli in sede dibattimentale ...»). 
    Al riguardo, e' sufficiente osservare che  -  pur  non  potendosi
negare l'oggettiva diversita' delle vicende  modificative  del  fatto
(nella sua dimensione storica) rispetto a quelle attinenti  alta  sua
qualificazione giuridica (18) - risulta, altrettanto, innegabile  che
nelle  ipotesi  in  cui  (e  la  fattispecie  per  cui  e'   processo
rappresenta  un  esempio   emblematico)   la   prospettiva   di   una
riqualificazione giuridica del fatto, originariamente contestato  dal
pubblico  ministero,  emerga  soltanto  dalle  risultanze  probatorie
dibattimentali, l'avvenuto superamento del limite temporale  previsto
per  la  proposizione  della  domanda  di  oblazione,  vale  a   dire
l'apertura del dibattimento, «non puo'  dirsi  riconducibile  ad  una
libera scelta  dell'imputato,  e  cioe'  ad  un'inerzia  allo  stesso
addebitabile, dal momento che la facolta' di proporre quella  domanda
non puo' che sorgere nel momento in cui il reato stesso e' oggetto di
contestazione (19) «aggiornata» e da  intendersi  riferita,  appunto,
anche alla diversa definizione giuridica del titolo di  reato,  quale
prerogativa funzionale del giudice ed a prescindere  da  un'eventuale
iniziativa da parte dell'organo titolare  dell'azione  penale,  sulla
base di una corretta applicazione  della  consolidata  giurisprudenza
dei  giudici  europei  in  materia  di  diritto  al   contraddittorio
garantito dall'art. 6, § 3, lettere a) e b) della Convenzione europea
dei diritti dell'uomo (20) . 
    4. Ne deriva, che al rilevato, e  non  manifestamente  infondato,
profilo di contrasto con l'art. 24, secondo comma della Costituzione,
puo' porre rimedio soltanto un intervento  manipolativo/additivo  del
giudice delle leggi, che  sancisca  l'illegittimita'  dell'art.  141,
comma 4-bis, disp. att. del codice di procedura penale,  nella  parte
in cui, secondo l'attuale diritto vivente,  «condiziona»  il  diritto
(difensivo) dell'imputato di proporre - nel corso del dibattimento ed
in relazione ad una diversa e meno grave qualificazione giuridica del
fatto oggetto dell'originaria contestazione - domanda di oblazione ad
una specifica iniziativa in tal senso da parte dello stesso imputato,
in via cautelativa ed entro il termine perentorio previsto  dall'art.
162-bis del codice penale, anche  nei  casi  in  cui  la  prospettiva
concreta di una diversa definizione giuridica del fatto,  rispetto  a
quella originariamente contestata e per la quale l'oblazione non  era
ammissibile, sia emersa su iniziativa del giudice ed  in  assenza  di
una  correlativa  modifica  formale  dell'imputazione  da  parte  del
pubblico ministero. 
    In tale prospettiva, comunque ispirata al principio  secondo  cui
«il confronto tra tutela convenzionale e  tutela  costituzionale  dei
diritti fondamentali deve  essere  effettuato  mirando  alla  massima
espansione  delle  garanzie,  anche  attraverso  lo  sviluppo   delle
potenzialita' insite nelle norme costituzionali che hanno ad  oggetto
i medesimi diritti ...» (cfr. Corte costituzionale, sentenza  n.  317
del 2009), non e' superfluo osservare che se da un  lato  l'auspicato
intervento  «additivo»,  per  le  ragioni  sopra  evidenziate,   deve
ritenersi  costituzionalmente   imposto,   dall'altro   non   risulta
necessario e pertinente estendere  (21)  i  dubbi  di  illegittimita'
costituzionale all'art. 521, comma 1 del codice di procedura penale. 
    Tale disposizione normativa, infatti, continua a conservare spazi
di autonomia applicativa non intrinsecamente  irragionevoli  (art.  3
della Costituzione) (22)  e comunque compatibili con i  parametri  di
cui  agli   articoli   111   e   24   della   Costituzione,   laddove
convenzionalmente e costituzionalmente  interpretata  nel  senso  del
riconoscimento   all'imputato   del   diritto   al    contraddittorio
argomentativo e probatorio (23) sulle «modifiche»  della  definizione
giuridica dell'accusa,  ma  non  anche,  necessariamente  ed  in  via
generale, del diritto ad  essere  rimesso  in  termini  per  avanzare
eventuali richieste di riti alternativi,  come  di  recente  ribadito
anche dalla Corte di giustizia UE (24) e dalla  Corte  costituzionale
(25) . 

(1) non  venendo  in  rilievo,  nel   caso   di   specie,   l'ipotesi
    disciplinata dal comma 5  del  citato  art.  162-bis  del  codice
    penale,  a  norma  del  quale  «[...]  La  domanda  puo'   essere
    riproposta  sino  all'inizio   della   discussione   finale   del
    dibattimento di primo grado ...». 

(2) Sui criteri di  valutazione  delta  testimonianza  della  persona
    offesa: cfr. Cassazione 21 giugno 2016, n. 25680, in  continuita'
    argomentativa  con  Sezioni  unite  19  luglio  2012,  n.  41461;
    Cassazione 24 settembre 2015, n. 43278. 

(3) Cassazione 8 maggio 2014, n. 18999. 

(4) Cfr. Cassazione 3 dicembre 2014, n. 50746; Cassazione 16 dicembre
    2014, n. 52260; Cassazione 8 febbraio 2016, n.  5011;  Cassazione
    16 marzo 2017, n. 12799; Cassazione 22 febbraio 2018, n. 8744. 

(5) V. Cassazione 7 novembre 2013, n. 32758; Cassazione  23  novembre
    2010, n. 43439; Cassazione 8 luglio 2010, n. 29933. 

(6) Sul punto e' doveroso il richiamo del  principio  della  «nozione
    funzionale del fatto» recepito dall'orientamento  costante  della
    giurisprudenza  di  legittimita'  secondo   cui,   in   tema   di
    correlazione tra imputazione contestata e  sentenza,  per  aversi
    mutamento del fatto «occorre  una  trasformazione  radicale,  nei
    suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella  quale
    si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo  che
    si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione  da  cui
    scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della  difesa»  (Cfr.
    Sezione unica, 15 luglio 2010, n. 36551; Sezione unica, 19 giugno
    1996, n. 16). 

(7) Evenienza quest'ultima dalla giurisprudenza  di  legittimita'  in
    astratto ritenuta comunque ammissibile,  facendo  leva  sull'art.
    516 del codice di procedura  penale,  sia  pure  con  riguardo  a
    quanto previsto dall'art. 423, comma 1 del  codice  di  procedura
    penale (cfr. Cassazione, Sezione unica,  19  giugno  1996,  cit.;
    Sezione VI, 11 novembre 1998, Manno). 

(8) Cfr. Cassazione n. 6211/15 secondo cui non  costituisce  indebita
    anticipazione di  giudizio  il  provvedimento  con  il  quale  il
    giudice inviti, in qualsiasi fase del procedimento, le  parti  ad
    interloquire   sulla   qualificazione   giuridica   del    fatto,
    trattandosi di una prerogativa  rientrante  nell'esercizio  delle
    sue funzioni e non di una  manifestazione  indebita  del  proprio
    convincimento  sui  fatti  oggetto  di  imputazione,  posto   che
    siffatta interlocuzione e' imposta  dall'art.  6,  par.  1  e  3,
    lettere a) e b) della C.E.D.U. 

(9) Cfr. ex  plurimis  Corte  EDU,  Grande  Camera,  25  marzo  1999,
    Pellissier e Sassi c. Francia, §§ 51-54; Corte EDU,  11  dicembre
    2007, Drassich c, Italia, §§ 31-34; Corte EDU, 28 febbraio  2002,
    D.C. c. Italia; Corte EDU, 24 luglio 2012,  D.M.T.  e  D.K.I.  c.
    Bulgaria, § 80. 

(10) V. Corte costituzionale, sentenze n. 348/07  e  n.  349/07,  cui
     hanno  fatto  seguito,  in  una   prospettiva   di   progressiva
     puntualizzazione, Corte costituzionale n. 317/09, n. 113/11,  n.
     308/13 e, da ultimo, Corte costituzionale, 26 marzo 2015, n. 49,
     secondo cui il giudice nazionale e' vincolato all'osservanza non
     di qualsivoglia sentenza della Corte EDU, ma solo delle sentenze
     costituenti «diritto consolidato» o delle sentenze cd. «pilota». 

(11) Sotto tale ultimo profilo,  si  e'  osservato  in  dottrina  che
     dall'analisi «dell'excursus giurisprudenziale europeo in materia
     emerge come l'indagine tesa a verificare l'eventuale lesione del
     diritto di  difesa  nella  peculiare  sfaccettatura  considerata
     dall'art. 6, § 3, lettera a) CEDU, abbia progressivamente mutato
     i parametri valutativi di riferimento. Inizialmente,  i  giudici
     europei   ritenevano   violato    il    dettato    convenzionale
     ogniqualvolta la riqualificazione risultasse  imprevedibile,  in
     quanto la fattispecie contestata non era esplicitata in  maniera
     comprensiva anche della sua qualificazione giuridica potenziale;
     ovvero, fosse plausibile  l'impiego  di  strumenti  probatori  e
     argomentazioni diverse da parte della  difesa  la'  dove  avesse
     potuto tenere  conto  sin  dall'inizio  della  rubricazione  poi
     attribuita in sede decisoria. Da ultimo, invece, per ritenere la
     incompatibilita' con i canoni convenzionali,  alla  Corte  basta
     che la variazione del titolo di reato  sia  sfuggita  al  previo
     contraddittorio, a prescindere dal riscontro in  concreto  della
     lesione del diritto di difesa». 

(12) Senza considerare l'oggettiva difficolta' di «classificare»  gli
     effetti della riqualificazione in «positivi»  e  in  «negativi»,
     ben potendo, come evidenziato in dottrina, «la  sussunzione  del
     fatto di cui alla imputazione sotto una fattispecie punita  piu'
     lievemente, determinare comunque ricadute peggiorative  o,  lato
     sensu, negative sull'imputato con riferimento non solo al quadro
     sanzionatorio della nuova  fattispecie,  ma  anche,  in  termini
     strettamente processuali,  alle  facolta'  difensive  variamente
     spendibili dall'imputato medesimo». 

(13) V. in tal senso anche Corte costituzionale n. 237 del 2012 cit. 

(14) Si tratta di Cassazione n. 11706 del 1998. 

(15) Il richiamo all'esistenza  di  un  «diritto  vivente»  (sul  cui
     concetto v. Corte costituzionale n. 177 del 2006)  quale  limite
     all'attivita' interpretativa «adeguatrice» del giudice di merito
     (che  non  intenda  discostarsene)  e,   nel   contempo,   quale
     presupposto di  ammissibilita'  di  un  eventuale  incidente  di
     legittimita' costituzionale,  costituisce  ormai  uno  strumento
     assai diffuso nella giurisprudenza  della  Corte  costituzionale
     (cfr. fra le tante, sentenze n. 350 del 1997, n. 239  e  n.  317
     del 2009, n. 338 del 2011, n. 117 del 2012, n. 191 del 2013). 

(16) Cfr. Corte costituzionale sentenze n. 170 del 2013, n. 78  e  n.
     110 del 2012, secondo cui «la lettera della norma impugnata,  il
     cui significato non  puo'  essere  valicato  neppure  per  mezzo
     dell'interpretazione costituzionalmente conforme,  non  consente
     in via interpretativa  di  conseguire  l'effetto  che  solo  una
     pronuncia di illegittimita' costituzionale puo' produrre». Negli
     stessi sostanziali termini, sentenze n. 270 e n. 315  del  2010,
     n. 221 del 2015, n. 253 del 2017. 

(17) Parametro  da  ritenersi  ormai  non  piu'  conforme  ai  canoni
     costituzionali (v. in tal senso Corte costituzionale n.  141/18,
     e gia' in precedenza sentenze n. 206 e n. 272 del 2017). 

(18) Argomento quest'ultimo anch'esso utilizzato dalla Suprema  corte
     nella sentenza T. 

(19) In tali termini, Corte costituzionale n. 530 del 1995. 

(20) Profilo quest'ultimo affrontato dalla Sezioni unite  in  termini
     alquanto opinabili, distinguendo le ipotesi di  riqualificazione
     giuridica  «peggiorativa»   da   quelle   «migliorative»   della
     posizione dell'imputato: «...  Cio'  che  dunque  risalta  nella
     decisione della Corte EDU, cosi' come in altre occasioni in  cui
     la medesima Corte ebbe ad  affrontare  il  tema  della  modifica
     della imputazione (v. fra le altre, le sentenze 1°  marzo  2001,
     Dallos c. Ungheria; 20 aprile 2006, I.H. c.  Austria;  3  luglio
     2006, Vesque c. Francia) e' che la  diversa  qualificazione  dei
     fatti ha assunto specifici connotati agli effetti  del  rispetto
     dei principi  del  giusto  processo  e  della  conoscenza  della
     accusa, in tutti i casi in cui lo ius variandi  riconosciuto  da
     vari ordinamenti ai giudici si accompagni a modifiche le  quali,
     per la loro natura, siano in grado  di  influire  in  peius  sul
     trattamento dell'imputato. In tal modo coinvolgendo direttamente
     le  facolta'  difensive,  compromesse  "inopinatamente"  da   un
     aggravamento del quadro dell'accusa.  Una  prospettiva,  dunque,
     del tutto diversa dalla ipotesi che viene qui in risalto, per la
     quale, vertendosi in tema di emendatio libelli migliorativa,  la
     stessa poteva (e doveva) formare oggetto di  una  domanda  -  ai
     fini della attivazione  del  procedimento  di  oblazione  -  che
     l'imputato stesso - e la sua difesa tecnica - erano in grado  di
     devolvere al giudice, senza la necessita' di chiamare  in  causa
     una  ipotetica  "sufficiente   prevedibilita'"   della   diversa
     qualificazione giuridica assegnata al fatto  dal  giudice  nella
     sentenza di condanna ...». 

(21) Ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87. 

(22) Proprio in  considerazione  dell'ontologica  diversita'  tra  le
     modifiche dibattimentali - «sostitutive» (art. 516 del codice di
     procedura  penale)  e  «suppletive»  (art.  517  del  codice  di
     procedura  penale)  -   che   attengono   al   «fatto»   oggetto
     dell'originaria  contestazione,  riservate  all'iniziativa   del
     pubblico ministero, quale dominus esclusivo dell'azione penale e
     in ordine alle  quali  il  giudice  del  dibattimento  non  puo'
     esercitare  alcun  sindacato  preventivo  di  ammissibilita',  a
     differenza del  «giudizio  di  diritto»  disciplinato,  appunto,
     dall'art. 521, comma 1 del codice di  procedura  penale,  ed  in
     concreto  legittimamente  esercitabile  dal  giudice   in   sede
     deliberazione   della   sentenza   (cfr.   sul   punto,    Corte
     costituzionale, sentenza n. 103 del 2010, nonche', fra le tante,
     Cassazione, 11 febbraio  2016,  n.  18112,  secondo  cui  e'  da
     ritenersi abnorme, perche' determina un'indebita regressione del
     procedimento,  l'ordinanza  con  cui  il  giudice  disponga   la
     restituzione degli atti al pubblico ministero, ritenendo che  il
     fatto vada inquadrato  in  una  diversa  fattispecie  criminosa,
     quando  non  sia  ravvisabile  un   mutamento   degli   elementi
     essenziali del fatto contestato, ma esclusivamente  una  diversa
     qualificazione giuridica dello stesso). 

(23) Cfr. sotto tale ultimo profilo Corte EDU, Sezione I, 22 febbraio
     2018, Drassich c. Italia. 

(24) V. Corte di giustizia, Prima sezione, sentenza 13  giugno  2019,
     causa C-646/17,  avente  ad  oggetto  la  domanda  di  pronuncia
     pregiudiziale sull'interpretazione  dell'art.  2,  paragrafo  1,
     dell'art. 3, paragrafo 1, lettera c), e dell'art.  6,  paragrafi
     da 1 a 3, della direttiva 2012/13/UE del  Parlamento  europeo  e
     del Consiglio, del 22 maggio 2012, sul diritto  all'informazione
     nei procedimenti penali, nonche' dell'art. 48  della  Carta  dei
     diritti fondamentali dell'Unione europea. Nel caso di specie, la
     controversia principale verteva sulla possibilita', in  caso  di
     modifica della qualificazione giuridica  dei  fatti  su  cui  si
     basava l'imputazione, di domandare l'applicazione di una pena su
     richiesta, ai  sensi  dell'art.  444  del  codice  di  procedura
     penate, nel corso del dibattimento, con  contestuale  riapertura
     dei termini di  presentazione  della  relativa  istanza;  dubbio
     interpretativo al quale la Corte  di  Lussemburgo  ha  dato  una
     risposta negativa (v. § 65, § 69 e § 72 della sentenza). 

(25) Cfr., da ultimo, Corte costituzionale n. 131 del  2019,  che  in
     una fattispecie  processuale,  tuttavia,  non  sovrapponibile  a
     quella in esame - poiche' connotata dall'avvenuta  presentazione
     da parte della difesa di una  rituale  e  tempestiva  richiesta,
     entro i termini di  legge,  di  rito  alternativo  (erroneamente
     rigettata dal giudice) - ha dichiarato non fondate le  questioni
     di legittimita' costituzionale degli articoli 464-bis, comma  2,
     e 521, comma 1 del codice di  procedura  penale,  sollevate,  in
     riferimento  agli  articoli  3  e  24,   secondo   comma   della
     Costituzione,  nella  parte  in  cui  tali   disposizioni   «non
     prevedono  la  possibilita'  di  disporre  la  sospensione   del
     procedimento con messa alla prova ove, in esito al giudizio,  il
     fatto di reato venga, su sollecitazione del  medesimo  imputato,
     diversamente qualificato dal giudice cosi' da rientrare  in  uno
     di quelli contemplati dal  primo  comma  dell'art.  168-bis  del
     codice penale».